mercoledì 16 dicembre 2009

Il Clima

Uno dei principi dello stato, in tutte le sue forme, è l'esercizio centralizzato della violenza. Violenza che viene, di conseguenza, accentrata nello stato e vietata ai cittadini nella risoluzione dei conflitti. Ne deriva una pacificazione dei rapporti individuali a favore della convivenza delle persone e del mantenimento dell'ordine. In sostanza lo Stato si riserva di punire e sanzionare "al posto del" cittadino comune.
Ma che stato è quello dove la violenza viene unilateralmente esercitata? Che stato è quello nel quale la violenza, comunque agita da soggetti singoli nell'espletamento delle proprie funzioni collettive, non è regolata?
I vecchi socialisti avrebbero risposto che è uno stato da abbattere. E forse siamo in questo stato di cose.
Sono anni che si ripetono episodi di violenza, fisica e morale, sui cittadini e sulle loro libertà, sulle associazioni, come sullle loro manifestazioni.

Violenza era quella di Genova, che ha visto le nostre forze dell'ordine macchiarsi di tali e tante infamie da essere considerate simili a quelle dei peggiori paesi dittatoriali del mondo. Violenza in strada, contro i manifestanti pacifici e contro quelli violenti, violenza quella a Bolzaneto, contro ragazzi inginocchiati e costretti a cantare cori fascisti, violenza quella alla Diaz, di notte, senza preavviso.
Violenza è quella esercitata ogni giorno sugli immigrati, per i quali sono state fatte "leggi speciali" per considerarne illegale la semplice esistenza. Violenza nei CPT dove sono rinchiusi senza processo, violenza nelle carceri che ne sono pieni, violenza per strada, dove sono perquisiti e fermati in violazione di qualunque stato di diritto.
Violenza è stata quella contro Sandri, contro Cucchi, contro Giuliani, sparati in faccia, uccisi di botte, violentati nella loro dignità di cittadini, più o meno santi, più o meno innocenti.
Violenza è quella che si ripete ad ogni manifestazione, contro manifestanti pacifici, quella che impedisce di passare da una strada anziché da un'altra, quella che impedisce di indire uno sciopero un giorno piuttosto ché in un altro, quello delle manganellate da dietro gli scudi e sotto i caschi, dei volti dei poliziotti infervorati come cani ringhiosi verso gente che ha perso il lavoro, i diritti, spesso la stessa vita.

Ma violenza è anche quella che fa sì che il 90% dei mezzi di comunicazione di massa, quelli che parlano a tutti indistintamente, siano controllati da un unico soggetto. E' subdola, questa violenza, perché riduce gli avversari allo stato di impotenza, perché li umilia, perché rende vano qualunque sforzo di ribaltare un risultato elettorale. E' una violenza che si esercita di giorno, quando tutti lavorano, e a casa rimangono le persone più vulnerabili, attraverso trasmissioni di finto intrattenimento.

Violenza è quella di uno stato con la testa a nord e il culo a sud, che costringe centinaia di ragazzi a fuggire dalla connivenza, dall'immobilismo, dalle mafie, dalle raccomandazioni, dalla miseria per arricchiere gli industriali di una zona già ricca e già efficiente.

Violenza è quella di un mercato del lavoro che costruisce giorno dopo giorno la precarietà, che ha dirottato tutti i diritti sui padroni, e i doveri, e la miseria, e le difficoltà sui lavoratori.

Violenza è quella di riforme su riforme che hanno privato un'intera generazione dei diritti elementari, al lavoro, alla previdenza, alla pensione, alle più elmentari protezioni sociali, che li ha spinti ad emigrare, all'estero se possibile, per cercare di costruire un futuro. Un meccanismo antico, pervicace, radicato nella nostra terra dove se non sei brigante sei emigrante.

Violenza è quella di una maggioranza che guarda con fastidio a qualunque organo di garanzia, qualunque contrappeso, che considera il parlamento un bivacco di manipoli, come ottant'anni fa.

Violenza è quella dei conservatori del nostro paese, che con la scusa di conservare l'ordine non hanno esitato a fare esplodere le bombe per le strade, ad uccidere chiunque si frapponesse al suo incedere inarrestabile. Conservatori che hanno partorito i mostri della prima repubblica e l'hanno poi rimpiazzata con la seconda, peggiore, se possibile. Uomini che non accettano di essere soppiantati al potere, che hanno fatto di tutto perché non ci fosse mai alternativa in questo paese immobile.

E allora di che ci meravigliamo? La corda è tesa da tempo. Chi si sente escluso lo è e non vede uscita dal tunnel. Le disparità troppe, i rimedi nessuno.
Chi ha armato la mano di Milano?

sabato 21 novembre 2009

Il Male


La mattina che Brenda morì ebbi uno di quei pensieri premonitori che spesso mi raggiungono alla sprovvista. L'essere umano, per sua natura, tende a sistematizzare il male. Tradizionalmente siamo abituati a pensare che, se un disegno esiste, esso si estende indifferentemente anche alla complessa relazione che lega quanti fanno del male. Tendiamo a pensare, in altri termini, che esista una regia del male, che ogni soggetto lo compia in maniera intenzionale, che ciascun gesto sia legato agli altri da finalità condivise, collettive e coordinate.
La storia di questo paese ci ha spesso portato a pensare a questo come di un ineluttabilità necessaria. I Servizi, la P2, la Banda della Magliana, la Mafia, il Terrorismo Nero, sarebbero state legate da un disegno comune, da una comune finalità eversiva coordinate da menti sottili e, di solito, collocate al di là di ogni sospetto. E' comodo. Fin troppo comodo pensarla così. Sarebbe più corretto pensare a ciascun soggetto come portatore di soggetti particolari e personali, inserito, per caso o per ventura, in un disegno più complessivo per frazioni di tempo determinate e discrete.
Quello che voglio dire è che ciascun protagonista del male quotidianamente portato a questa nazione non è indiolubilmente legato agli altri da un sodalizio criminale. Anzi! Ciascun soggetto fa la sua strada e, lungo il percorso, si trova ad avallare, favorire e perorare le cause altrui nella misura in cui queste ultime collimano con le proprie. Non è un caso che non c'è nessun testimone, nessuna memoria (tranne forse il programma politico della P2) che sia in grado di descrivere quello che successe in quegli anni. Nessuno di quanti hanno partecipato a quella stagione infame è capace di ricostruirne sostanzialmente il disegno complessivo, rendendone chiari i fini, le strategie e le modalità operative. E' questo è proprio il risultato della tangenzialità dell'intervento di ciascuno alla generale operatività del male in sè.

Anche nell'affaire Marrazzo la storia si ripete. Storia di piccoli farabutti, che per un caso si sono trovati a ricattare un personaggio noto. Storia di farabutti più grandi che hanno spostato le finalità iniziali verso altri obiettivi, le hanno ingigantite e le hanno riposizionate. Storia di soggetti che, con poco scrupolo, si sono serviti di altri soggetti che, normalmente, avrebbero fatto la propria strada.
Quello che è triste, pensando a Brenda, ma anche ai morti di Bologna, Brescia, dell'Italicus e di tanti altri, è che, in questo convergere spesso casuale di interessi di per sè indipendenti, ci sia sempre qualcuno, innocente (o più o meno innocente) che alla fine viene schiacciato affinchè il disegno, pur se solamente abbozzato, si compia.

lunedì 9 novembre 2009

9 Novembre 1989

Quella sera io e papà eravamo appena rientrati da una lunga giornata di lavoro. Io avevo 12 anni, e, potete non crederci, davo una mano a mio padre facendo piccole cose al frantoio. Se non facevo nulla mi divertivo ad intrattenere gli operari, chiacchieravo, gli portavo il caffè, passavo il tempo sdraiato sui sacchi caldi delle olive.

Quella sera la televisione trasmise le immagini che mi avrebbero cambiato la vita. E non perché ne trassi un qualche insegnamento schierato, una percezione di quale delle due parti del muro avessi dovuto abbracciare per partito. Ma perchè, in maniera più istintiva, capii velocemente che avrei voluto, anche per il nostro mondo, una rivoluzione portata sui volti distesi e sereni, felici e trepidandi, tripudianti ed entusiasti, di quei ragazzi di Berlino che per la prima volta si incontravano tra loro.

Una rivoluzione di fiori. Bellissima. Senza sangue e senza morti. Ho rivisto e rivivo quelle immagini oggi e sono le stesse che sono stampate a fuoco nella mia memoria. E la mia memoria non consente la sopportazione di altri muri e altri confini, la mia anima continua a cercare quella rivoluzione, di gente fresca e bella che si ama e che si bacia e che si riprende il proprio futuro. Ad un ragazzo di 12 anni quella giornata non poteva insegnare di più. Eppure sono convinto che quel giorno mi riconsegnò la verginità, perché impaludati nella politica italiana noi non avevamo nemmeno sentore della più lontana possibilità di un evento simile. Invischiati in un mondo che non conosce scossoni e che, gattopardescamente, è sempre uguale a se stesso, quei ragazzi ci insegnarono che era ed è ancora possibile liberarsi dei muri più beceri, delle divisioni più odiose.

Oggi del muro, scomparsi il comunismo e con il liberalismo in crisi, non ci rimane che questo insegnamento supremo.

martedì 3 novembre 2009

Autumnus

Vorrei vivere in una terra in cui l'autunno ha una sua personalità specifica. Un posto in cui le foglie sugli alberi seguissero il loro ciclo naturale e cromatico, diventassero prima gialle e poi rosse e infine cadessero.
Un posto in cui alla pioggia si assommasse il freddo e il freddo togliesse dall'aria l'umido e con l'umido il marciume preventivo, consostanziale e reale, connesso alla pianta e non alla terra.
Nella terra in cui vivo le foglie marciscono prima di cadere, raggrinziscono attaccate ai rami, si fanno grigie, poi si raggomitolano su se stesse e non cadono finché il vento non le porta via. I rami non si spogliano mai completamente, qualche foglia tenace rimane ancorata al suo malleolo fino alla primavera quando i primi germogli verdi iniziano ad infestare le superfici liscie dei platani.
I rami non diventano mai veramente neri per il freddo e per l'acqua, i colori non seguono mai la propria legge secolare.

Nella terra in cui sono nato, andando a scuola, si vedeva la montagna in lontananza coperta di faggi ad un altezza data. Sotto, i coltivi verdi delle colline ripide. Sopra, il limite della neve, la pietraia impietosa dell'appennino. E in mezzo loro, i faggi secolari, con le loro radici che tengono la poca terra, e la roccia e l'acqua. Quando arrivava l'autunno coi faggi ingialliva la montagna, che si copriva di un manto dolce di un giallo intenso che si collegava, a valle, con il rosso delle foglie della vigna. Più tardi il giallo arrossiva e poi bruniva fino a lasciare spogli i rami. In poche settimane la quinta scenica della nostra vita passava dal verde, al giallo, al rosso al nero, e poi al bianco, con l'arrivo delle prime nevi.
E tu sapevi che c'era un ordine eterno ed immutabile e il tuo organismo, come quello degli animali, si preparava al lungo inverno, al freddo, alla pioggia, alla neve, quando arrivava, e attendeva una nuova primavera.

Qui no. Qui tutto è un marciume continuo, dove nessun ruolo ritrova se stesso e nessun passaggio è scandibile o scandito una volta per tutte. In questa valle solcata dal fiume, da secoli, gli uomini come le foglie non ingialliscono mai, ma rimangono ancorate al proprio ramo in attesa di una nuova primavera.

venerdì 30 ottobre 2009

La vergogna

La polemica che incalza tutta la nazione non sarebbe nulla se non ci fosse la vergogna. Come pure, se non ci fosse il reato non ci sarebbe la necessità della resa.
In questo paese di morali variabili ciò che è proibito per qualcuno è consentito a tutti gli altri. Ma se la morale fosse meno moralista, qualcosa, qualche gusto eterodosso, potrebbe essere anche tollerato. E, soprattutto, si eviterebbe la ricattabilità di quanti fossero beccati con le mani nella mamellata.
Eppure nessuno pone mente alla legalizzazione di comportamenti fin troppo diffusi, come la prostituzione e il consumo di droga. Ci sono ragazzi menati a sangue perchè beccati con piccole dosi, persone che fanno galere lunghissime in virtù di leggi stupide. E su queste leggi si ancora la nostra moralità a doppia velocità, giacché è facile sanzionare ciò che il volgo considera impudico.
Che differenza c'è tra chi va a puttane e chi va a trans: nessuno, in termini di legge, e nessuno in termini di morale. Nel senso che si può accettare o non accettare, ma o si rifiutano entrambe le pratiche o nessuna delle due. Ciò che invece è perfettamente uguale è che, di fronte alla proibizione di legge, chi esercita queste pratiche si trova, volente o nolente, nelle mani di chi ne è a conoscenza.

Ciò che, invece, è perfettamente diverso, è che, chi si può permettere di essere l'"utilizzatore finale" si sente perfettamente tranquillo, e non perché per lui la becera morale non si applichi. Ma perché, semplicemente, può disporre di un tale dispiego di mezzi di informazione, di soloni idioti, di portavoce beceri, che qualunque fosse la debolezza commessa, si sentirebbe comunque e sempre impunibile e in grado di ribaltare la realtà. Ed è l'ennesimo esempio di conflitto di interessi.

giovedì 17 settembre 2009

Dovremmo dedurne...

Poniamo che un signore anziano e molto potente si accompagnasse ad una ragazzina minorenne o semiminorenne, poniamo anche che, in tutto questo, il padre di lei si dichiarasse a più riprese amico dell'uomo anziano. Poniamolo, ma ricordiamoci che è altamente improbabile.
Dovremmo domandarci, innanzitutto, come mai il padre di lei acconsente, senza troppi problemi, a che la figlia si intrattenga alla copula col vegliardo. Tutti, ma proprio tutti, indistintamente, ci risponderemmo con semplicità che il padre, considerando il potere che emana dalla persona anziana, sarebbe ben contento di concedere la di lei verginità, perché, in prospettiva, un riflesso di quel potere sarebbe direttamente ribaltata su di lui.

Lo dedurremmo per via diretta perché anche noi, non ostante tutto, siamo ancora intrisi della memoria antropologica del significato profondo del contratto sotteso ai meccanismi ancestrali di concessione/non concessione della femmina di una tribu ad un'altra tribu.

Detto in altri termini, nessuno di noi si stupirebbe perché si sa che, in un mondo tradizionale, il matrimonio altro non è che lo scambio del patrimonio femminile (dote, o matri-monio, opposto a patri-monio) tra una tribu ed un'altra sottoposto ad un contratto scritto per il quale il maschio si assume la proprietà della femmina, l'onere del suo mantenimento e il diritto allo sfruttamento del suo utero con finalità riproduttive.

Ovviamente qualcuno potrebbe obiettare che, nel caso di specie, non si è parlato di matrimonio, o di contratto. Ma tutti, proprio tutti, capirebbero che, in assenza di un contratto matrimoniale (che, come detto, prevede il mantenimento) la persona anziana si sarebbe impegnata con il padre contrattualizzando, formalmente o informalmente, l'uso della figlia in virtù di un'altro scambio, altrettanto vantaggioso e magari non vincolante.

Per essere spiccioli, il padre si sarebbe fatto assicurare dall'uomo anziano che, a seguito della copula (singola o ripetuta) la figlia avrebbe ricevuto qualcosa che le assicurasse un futuro tranquillo e sereno, magari ricco e senza problemi. In sostanza il padre avrebbe accettato uno scambio equipollente al matrimonio, si sarebbe, cioè, assicurato che la cessione delle grazie filiali sarebbe avvenuta a fronte di una copertura economica pari alla durata dell'esistenza stessa della figlia.

Per questo, solo per questo, il padre avrebbe accettato che la figlia fosse impalmata dal vecchio. Tanto più che l'uomo anziano è stato presupposto potente. E il potente, si sa, ha una pubblica reputazione che gli deriva dal potere stesso. Ne dedurremmo, tutti, che il padre della ragazza avrebbe avuto un altro asso nella manica, ovvero sia il potere di ricatto nel caso in cui il vegliardo si fosse tirato indietro nell'ottemperare ai suoi impegni presi.

Come si vede, nessuno di noi si sarebbe stupito dell'atteggiamento rilassato del padre (e, magari, della palese complicità della madre).

Tutti, però, ci stupiremmo, o per lo meno, ci indigneremmo se un fatto del genere accadesse oggi. Perchè tutti conosciamo in linea di massima l'evoluzione e il progresso della figura femminile nella nostra società e tutti sappiamo che oggi nessun padre può concedere la figlia. Sappiamo anche che se anche la figlia si concedesse il padre si indignerebbe (e parecchio) perché è chiaro che per una figlia si vuole un futuro pieno e dignitoso, non una vergognosa compravendita.

In sostanza accetteremmo l'atteggiamento del padre in una società rurale o semi ruruale. Ma non oggi, non nel XXI secolo.

Fortuna che si tratta solo di un'ipotesi... altrimenti ci sarebbe veramente da indignarsi.

giovedì 10 settembre 2009

Di Vittorio dove sei????

In tv trasmettono un pezzo sulla tratta degli schiavi al sud... provincia di Foggia, o di Bari...
Centinaia di ragazzi clandestini comperati a 25 euro al giorno, costretti a vivere in dormitori senza acqua né luce, senza servizi iginici, in mezzo ai cani e alle pulci, in mezzo allla campagna infinita del grano e dell'uva.
Decine di datori di lavoro senza coscienza. Signori intoccabili che assumono le persone dai caporali. Come cinquanta, centro, mille anni fa, come sempre.
Le scene di cinquant'anni fa ritraevano persone che parlavano di sindacato, di lotta dei lavoratori, di diritti, di collocamento di contratto. Le scene di oggi ritraggono imbecilli che parlano di stranieri che rubano il lavoro agli italiani.

Siamo tornati indietro. Il sindacato si è inchiuso nella sua fortezza d'avorio delle grandi fabbriche. La sinistra fa salotto a Roma e a Bologna. I lavoratori imbestialiscono davanti alla propria tv.
Siamo tornati indietro.
Oggi vorrei che Di Vittorio vi fosse ancora. Che fosse ancora vivo.

lunedì 27 luglio 2009

Ortona Centro Oli

Hanno deciso che della crescita economica ci lasceranno solo la merda...

martedì 21 luglio 2009

Quello che non sapevo

Obama loda il “grande” leader italiano per la sua integrità - ma non è Berlusconi

[The Times]
Molti italiani si rallegreranno delle parole pronunciate dal Presidente Obama che, arrivato in Italia ieri per il suo primo G8, ha elogiato il “grande leader” della nazione. Questa figura autorevole gode dell’“ammirazione del popolo italiano”, non solo per l’esperienza al servizio dello Stato, ma per “la sua integrità e la sua cortesia”.
“Voglio solo confermare che tutto quello che ho sentito su di lui è vero. È uno straordinario gentiluomo, un grande leader di questo Paese”, ha aggiunto Obama. Stava parlando del Presidente Napolitano, Capo dello Stato, non di Berlusconi.
La Casa Bianca ha tentato di smentire le voci secondo cui i complimenti , non estesi a Berlusconi, sottintendessero una velata critica al Presidente del Consiglio e ai suoi scandali. Quando è stato chiesto a un portavoce della Casa Bianca se le lodi di Obama alle qualità di Napolitano implicassero un’allusione alla mancanza delle stesse in Berlusconi, ha risposto: “Non leggerei troppo tra le righe. A volte intendiamo esattamente ciò che diciamo”.
Ma gli italiani potrebbero trarne una conclusione diversa. Altre fotografie scattate nella villa sarda di Berlusconi sono in vendita, tra cui quella di due donne che si baciano di fronte al premier. Forse il “bacio saffico” era uno “scherzo” messo in piedi dalle due donne per imbarazzare il Presidente del Consiglio, suggerisce Libero, quotidiano di destra, in un’intervista al fotografo.
Forse. Ad ogni modo, Berlusconi sperava che non venissero alla luce nuove foto all’apertura dei lavori del vertice, che non fossero annunciate altre inchieste sui festini in Sardegna e Roma e, infine, che non ci fossero più donne pronte a raccontare delle presunte notti di passione passate con il Presidente.
Nonostante le premesse, il primo giorno è andato bene. Malgrado i dolori per l’artrite al collo che lo affliggono dallo scoppio degli scandali ad aprile sulla sua vita privata, Berlusconi ha elargito sorrisi salutando i partner del G8 come se le rivelazioni che hanno spinto la moglie a chiedere il divorzio non ci fossero state. I leader hanno fatto altrettanto: Obama lo ha baciato sulle guance, Angela Merkel gli ha preso la mano e Gordon Brow lo ha abbracciato. La mattina, prima dell’inizio del vertice, Berlusconi ha accompagnato la Merkel in una visita a Onna, uno dei paesi dell’Abruzzo colpiti dal terremoto di aprile e che la Germania si è impegnata a ricostruire come risarcimento per il massacro nazista di 17 cittadini nel 1944.
Alla conclusione dei lavori del primo giorno sul futuro dell’economia mondiale e sul cambiamento climatico, Berlusconi ha accompagnato Obama e Medveded in una visita analoga alle rovine de L’Aquila, in linea con lo “spirito sobrio” del vertice. Berlusconi ha regalato ai leader del G8 un parka nero di Belstaff, che produce soprabiti per le star, con versione chic per le mogli dei leader.
“Saranno gli italiani a decidere se Berlusconi sia o meno un leader legittimo” ha affermato Franco Frattini, Ministro degli Esteri, rispondendo a quelli che definisce attacchi infondati dei media stranieri. Berlusconi continua spavaldo: “Ciò che conta è la realtà, non le calunnie” ha dichiarato, condannando aspramente le voci su una presunta espulsione dell’Italia dal G8 che sarebbe poi rimpiazzata dalla Spagna.
Ancora ci si interroga se il vertice debba essere considerato un successo. Il Corriere della Sera ha dichiarato che il Governo ha compiuto “uno sforzo immane” per trasferire all’ultimo minuto quest’evento, che originariamente doveva ternersi in Sardegna. Ma, continua il quotidiano, il comportamento di Berlusconi verso le donne e i conseguenti attacchi alla sua persona sono stati una “delegittimazione” che ha danneggiato l’immagine dell’Italia e i problemi di Berlusconi sono ben lungi dall’essere risolti.


[articolo tratto dal sito Italia dall'estero; originale a questo link]

venerdì 17 luglio 2009

Poi vennero per me... e non c'era più nessuno a difendermi

Hanno dovuto massacrare un ragazzo normale, tranquillo, ordinario, in una notte ferrarese come tante altre. Hanno dovuto sparare alla testa ad un tifoso della Lazio, che tutti chiamano orrendamente con il nome di borgata. Hanno dovuto commettere l'ennesima ingiustizia, calpestare di nuovo i diritti fondamentali delle persone. E adesso la società civile piange lacrime di coccodrillo.

Questa storia di orrori e successive ingiustizie si ripete da anni. Ma quando i protaggonisti erano i "comunisti" o gli "stranieri" la stampa, l'opinione pubblica, la società civile non battevano ciglio. Che differenza c'è tra Gabriele Sandri e Carlo Giuliani? Carlo è stato ucciso con un colpo diretto alla testa, da pochi metri: il carabiniere ha puntato, mirato e sparato. Ma Carlo era un comunista, un "rivoltoso", un "black bloc", qualcuno ha detto che era un ragazzo difficile. Carlo è stato prima ricoperto di etichette, hanno fatto in modo che questo giustificasse il colpo di Placanica, e poi è stato ucciso due volte sulla stampa. In pochi sanno com'è andato il processo, ma i 6 anni dati a Spaccarotella sono un'infinità di fronte al nulla della condanna/non-condanna di Placanica. Qualcuno dirà: ma quel ragazzo aveva un estintore in mano. Come dimenticarlo. Ma questo ne fa un condannato a morte? E poi: Sandri non era nemmeno lui un agnellino, aveva appena caricato un gruppo di tifosi assieme agli amici. Anche questo non ne faceva un condannato a morte.
La sola differenza, evidente, tra Carlo e Gabriele è una sola: Gabriele era un ragazzo pulito, di destra, di buona famiglia, "musicista", non un "comunista di merda", un "rifiuto della società".

Tutti ricorderete da che parte stava la destra quando uccisero Carlo. Era dalla parte della Polizia, dalla parte di chi massacrava a Bolzaneto e alla Diaz. Dalla parte di chi costruiva prove false per incriminare ragazzi innocenti. Dov'è la destra quando i poliziotti rinchiudono gli immigrati nei CPT? quando privano le persone della propria libertà in assenza di qualunque reato? dov'è quando per questi reati i processi non vengono neppure iniziati? o vengono rallentati? o prescritti per decorrenza? Dove?

Adesso piangiamo altri morti e ne piangeremo ancora e ancora. Ne piangeremo finché non la smetteremo di ragionare per categoria. Finchè non riabiliteremo l'articolo che recita che "la responsabilità penale è personale": in Italia non funziona così. In Italia si può massacrare il "negro", il "comunista", ma anche il "drogato", l'"emarginato", il "barbone". Si possono massacrare le categorie che non riescono a trovare avvocati liberi e coscienti tra le colonne dei giornali e tra le fila dei partiti di governo, a destra come a sinistra.
Non si possono invece massacrare "i tifosi", "i bravi ragazzi", i "militanti di destra", le persone normali, quelle no! quelle non si toccano! Se succede si alza un coro di indignazione e lamento, anche se il morto ammazzato andava allo stadio con un coltello in tasca e le catene nel porta bagagli. Anzi: in questo paese delle categorie a questi "bravi ragazzi" si offrono anche le piazze.

Abbiamo lasciato che si massacrassero gli altri, i diversi, senza batter ciglio, senza lamenti, anzi, abbiamo fatto levate di scudi a difesa delle forze di polizia, e adesso... non c'è più nessuno a difenderci.

giovedì 25 giugno 2009

Storia di Laura

Laura è una ragazza siciliana di 35 anni. È a Roma da tempo, ha studiato per diventare archivista: come tutte le persone che pasteggiano la materia ha una cultura vastissima, fatta di epigrafi, codici antichi e metodo, tanto metodo. Laura è una donna solare, dotata della classica ironia dei siciliani, un misto di distacco e intelligenza pungente, capace di scavare nei pensieri degli altri. È una persona piacevole, mai banale, sincera.
Laura ha il padre malato, in Sicilia. Il vecchio ha un brutto tumore al pancreas, di quelli che tutti i medici ti dicono che non si cura mai e che porta dritto alla tomba. Laura ha combattuto contro il fatalismo della famiglia, si è rimboccata le maniche, ha sfidato le lacrime della sorella e della madre e ha cercato un ospedale che accogliesse il padre. Pare che l’unico centro in Italia che curi, o tenti di curare, questo tipo di tumore sia a Verona. Ma da lì non risponde nessuno, nessuno prende appuntamenti, nessuno è in grado di dare risposte, soprattutto se a pagare è la sanità siciliana che di soldi ne ha pochi, impegnata com’è a finanziare le cliniche private. Allora Laura si è rivolta all’ospedale di Catania ben sapendo che ciò vuol dire, molto banalmente, parcheggiare il padre e aspettare che muoia di tumore, imbottito di medicine e incapace di ragionare.
Intanto Laura ha passato un brutto periodo in Sicilia, ha perso l’unico lavoretto che aveva, ha mollato per prendere per i capelli una famiglia incapace di reagire alla tragedia. Ha affrontato le nevrosi delle donne di casa, restando per quanto possibile impassibile; ha affrontato l’incapacità di reagire del padre, comprendendolo, e allora ha pianto con lui, ben sapendo che il suo crollo vuol dire un’accelerazione della malattia.
Solo allora Laura è tornata a Roma e si è rimessa a cercare un lavoro. Ha trovato lavoro con un rattuso che se ne va in giro con un furgoncino sgangherato, tutti i giorni della settimana, domenica compresa, a distribuire i salvadanai che si piazzano sui banconi dei bar per raccogliere offerte per i bambini malati. Due lire la pagavano e la sfruttavano, e se n’è andata. Poi ha iniziato a lavorare per un call center, in centro, vicino alla stazione, dove la pagavano due lire per stare una giornata a fare ricerche di mercato. Un giorno ha osato guardare il cellulare sul quale le era arrivato un messaggio ed è stata cacciata come si cacciano i cani, accusata di essere nullafacente, licenziata in tronco e di nuovo in strada a cercare un lavoro. Fortuna (o sfortuna) che si trattava solo di minacce. Laura lavora ancora lì, a cottimo. Quando ci sono ricerche di mercato da fare la chiamano, quando non ce n’è la lasciano a casa…
E così lei ha cercato un altro lavoro. Ha trovato una società che fa trascrizioni delle deposizioni dei tribunali. 400 euro al mese per passare le giornate e le nottate a trascrivere tracce audio in dialetto di imputati davanti alle corti dei tribunali penali. Un lavoro senza sosta, senza speranza, anche questo a cottimo, fatto di notte e di giorno nell’attesa che il call center faccia un’ennesima chiamata, un’ennesima ricerca di mercato. Un lavoro pagato male e pagato in ritardo, a tre mesi, che non consente di vivere e di pagarsi nemmeno l’affitto.
Laura ha perso anche il sorriso, adesso è disperata. Di due lavori che fa non arriva alla fine del mese. E non sono frasi fatte, di quelle che si sentono in bocca ai mille idioti di questa nazione. Laura non ha i soldi per fare la spesa. Ha 35 anni e rischia di ridursi allo stato di una barbona, senza dignità né speranza. Laura è una giovane donna che dovrà rinunciare agli sfizi della femminilità, quelli che danno un po’ di senso alla propria vita, dovrà rinunciare ad uscire a cena, a vivere una vita “piena e dignitosa”. E anche con queste rinunce Laura non ce la farà, anche quando tra tre mesi arriveranno i pochi spiccioli che la società di trascrizioni bonificherà.
Laura ha chiesto soldi in prestito. Li ha chiesti agli amici ed è il primo passo. Laura ha perso il sorriso, adesso è disperata.

mercoledì 20 maggio 2009

Potrei tornare a votarli...

Vendola a Gasparri

Continiuamo a discutere con questi cialtroni legittimando, automaticamente, le loro posizioni. Ci prostriamo in estenuanti dibattiti nei quali sembra che le loro posizioni siano "normali", "plausibili", "ricevibili"... forse non è così.
Forse dobbiam smettere di discutere...

Favvanculo...

lunedì 18 maggio 2009

Tornando a bomba....

Dal Corriere... gli hanno tatuato una svastica sul braccio

Sono anni che assistiamo alla fiera del "Tanto sono tutti uguali". Sono anni che cercano di farci credere che nazismo, comunismo, fascismo ed altre dittature sono uguali basandosi su una idiota contabilità dei morti.
L'equazione assurda è fondata su un presupposto fin troppo facile da smontare, quello per il quale tutte queste ideologie hanno portato alla morte di milioni di persone. Ad esser ancor più precisi si dice che il comunismo sarebbe il male peggiore perché ha mandato a morte un numero maggiore di persone.

Il retropensiero di questi pseudo-storici è fin troppo leggibile e altrettanto allarmante. Si cerca di ragionare in termini di un "mal comune" per il quale lo sdoganamento dei fascismi sarebbe possibile in virtù del fatto che, tanto, "lo hanno fatto tutti". Sarebbe inutile una damnatio eterna per le dittature nazionaliste che hanno condotto l'Europa al massacro. Anzi, in fin dei conti i morti dei fascismi sarebbero anche pochini rispetto a quelli del comunismo. Insomma, accomunare tutte le dittature, per legittimare il ritorno dei fascisti al potere.

Eppure, secondo me, ci sono tre punti imprescindibili:
  1. Per il nazismo l'eliminazione fisica di interi gruppi umani (ebrei in primis, ma anche rom, polacchi, slavi, omosessuali, handicappati, oppositori politici, ecc.) non è la diretta conseguenza di un rovesciamento del potere costituito, ma l'obiettivo dichiarato e chiaro della gestione del potere. Per tutte le dittature, comunismo compreso, la morte degli oppositori, veri o presunti, è conseguenza dell'esercizio del potere in una forma diversa rispetto al passato. Si pensi a quello che accadde negli anni del terrore della Rivoluzione Francese, oppure a quello che è accaduto per tutto il ventesimo secolo in sud america. In ogni caso la conseguenza della presa di potere è l'eliminazione degli oppositori. Il nazismo, invece, nasce col culto della morte, celebrata in mille riti e mille situazioni diverse, punto di partenza per l'educazione dei quadri di partito e delle SS: una morte dichiarata, punto di partenza dell'azione politica, presunta catarsi del mondo, obiettivo principe, se non unico della presa del potere. Morte giustificata, glorificata, portata al livello di ingegnerizzazione massimo e di massima efficienza, esercitata con metodo e spirito di abnegazione.
  2. Come conseguenza del primo punto, il soggetto obiettivo di sterminio da parte dell'ideologia nazista non ha nessuna possibilità di scampo, non c'è nessuna pietà. Mentre nei normali meccanismi dittatoriali è possibile in qualche modo sfuggire alla morte, è possibile anche ritagliarsi uno spazio di ignavia, di indifferenza, di disimpegno dalle questioni politiche che assicuri la sopravvivenza, il nazismo non lascia scampo, perché è la nascita, la presunta razza, ad essere il discrimine della vita e della morte. Se si nasce ebrei non c'è redenzione, il lagher, il gas, il forno sono la partitura mortifera del soggetto stabilita dai secoli e per i secoli valida.
  3. L'Europa occidentale, quella nella quale siamo nati e cresciuti, ha subito il nazismo e il fascismo, non il comunismo. Potrà sembrare questione di lana caprina, ma non lo è affatto. In occidente le costituzioni repubblicane, quella italiana compresa, sono nate come risposta/reazione alla barbarie nazifascista: da qualunque partito siano state scritte, cristiano, socialdemocratico, socialista o comunista, le nostre costituzioni hanno attribuito diritti in risposta alla sottrazione che era stata imposta dai fascismi, sono state estese libertà proprio nei comportamenti vietati da essi. Più in generale, i costituenti dell'Europa occidentale hanno avuto chiarissima, in virtù di quanto fatto da Hitler e Mussolini, quale era la conseguenza della soppressione delle libertà, dei diritti, delle garanzie costituzionali. Hanno sperimentato sulla propria pelle cosa vuol dire uno stato non democratico. E proprio in virtù di questo hanno disegnato architetture costituzionali aperte, democratiche, inclusive, protettive delle fasce più deboli.

Su quest'ultimo punto mi piace fare l'ultima metafora. In medicina si contempla tutto tranne che il trapianto di cervello. Si può sostituire tutto tranne che il centro nevralgico della personalità del soggetto. Snaturare le nostre costituzioni e riscriverle in senso fascista, come si sta cercando di fare in Italia, non vuol dire creare una nuova forma costituzionale, ma, molto più semplicemente, trapiantare il cervello al paese, snaturarlo completamente, eliminare il presupposto della sua legittima sovranità. Per assurdo, se tali cambiamenti venissero portati a termine, il popolo sarebbe legittimato alla guerra civile, proprio perché la costituzione non avrebbe più la base sulla quale si fonda, la sua legittimità appunto, e di conseguenza, nessun governante sarebbe autorizzato a governare.

venerdì 15 maggio 2009

giovedì 14 maggio 2009

C'è qualcosa nell'aria stasera

C'è aria di festa in Europa, il vecchio continente si riempie di vecchie bandiere e di simpatici ragazzi dai capelli corti.

L'orrore è lancinante. I polmoni smettono di respirare per lunghi secondi, di fronte al tappeto di svastiche e di idioti che percorre il nostro continente.

Una piccola rassegna stampa per tenere alta la guardia:

L'aria d'Ungheria
Russia, aumentano gli episodi di razzismo: 23 morti dall'inizio dell'anno
Aggressione neonazista all’Università di Novi Sad
Europa, dove il comunismo è morto ma fascismo e nazismo godono di ottima salute
Internazionale Neonazista
Neo-Nazi rampage triggers alarm in Berlin
Dresda - 13-14 febbraio 2009 - No Pasarán!
Oggi non è un giorno qualunque per Dresda e i suoi abitanti


Non gli basta mai... a questi vampiri della storia il sangue non basta mai.

giovedì 7 maggio 2009

A proposito

... dura da un po'. Non è iniziata oggi:
Al San Paolo come alla Diaz
http://it.peacereporter.net/videogallery/video/11950

(avessi saputo, avrei embeddato)

Burocrazie assassine

Un fenomeno tipico dei totalitarismi è ammantare di legalità gli atti illegali. A 120 anni dalla rivoluzione francese l'occidente sembra imbrigliato nelle maglie della giustificazione burocratica degli atti più infami.
Prima, in occidente, era sufficiente l'autorità del Re: quando nel 1162 Federico Barbarossa decise che si era annoiato della resistenza dei comuni lombardi non ebbe bisogno di nessuna scusa, chiamò i lodigiani, li radunò intorno a Milano e la smontò mattone per mattone, tegola per tegola, pietra per pietra. Non ne rimase nulla. Non c'era stato bisogno di leggi e leggiucole per convincere i lodigiani, visto che nel 1110 i milanesi avevano fatto altrettanto (oggi non si sa nemmeno dove fossero le mura antiche) e costretto i lodigiani, in perpetuo, a ricostruire la città altrove.
Dopo la rivoluzione non è stata più la stessa cosa. Ogni atto di imperio, anche il più tremendo, ha dovuto trovare giustificazione. Prima occorre convincere l'opinione pubblica, formalmente detentrice del potere, che gli atti che si stanno per compiere sono legittimi. Hitler martellò i mezzi di comunicazione con le peggiori nefandezze sugli ebrei, prima di iniziare la persecuzione vera e propria. E un capitolo a parte andrebbe scritto sull'eterno dubbio se la manipolazione crei "la pancia della gente" o se ne sia la conseguenza.
Successivamente si passa alla burocrazia. Per anni, quando già i camini fumavano in tutta l'Europa orientale, il regime nazista continuò a far figurare operazioni di sanità pubblica, campi di lavoro, interventi per la sicurezza nazionale al posto di confessare che si stava lavorando alacremente al massacro. Per certi versi la spersonalizzazione burocratica delle pratiche di morte serviva a rincuorare notevolmente i soldati semplici del massacro, perchè un conto è svegliarsi al mattino e dirsi che si va "ad uccidere esseri umani", un conto invece è rassicurarsi dicendo "vado a fare un lavoro di pubblica sanità" (come un semplice infermiere).

Ma la cosa notevolmente più interessante è che nemmeno la più idiota delle ideologie, in assoluto il punto più basso raggiunto dall'essere umano, abbia avuto il coraggio di scalfire formalmente la patina normativa derivante dal Codice Civile. L'habeas corpus continuava formalmente a valere, come, in Italia, continuava a valere lo Staturo.

E' sostanzialmente inutile, quindi, cercare di leggere nelle carte il punto esatto in cui si una democrazia si trasforma in dittatura. La sua appartenenza al consesso delle nazioni civili gli impedisce di metterlo nero su bianco. Si può solo, velatamente, aggrapparsi alla "forza maggiore" per far passare una serie di leggine, appoggiate le une alle altre fino a raggiungere il grado della persecuzione.

Già qualche anno fa, a Milano, uscì una legge che imponeva che i Call Center, quelli per chiamare all'estero, dovessero avere le cabine di un metro per un metro di larghezza, servizi igienici di un certo tipo e rispettare alcune normative particolari. Formalmente niente di male. Se non che gli unici che gestiscono Call Center sono stranieri e che le norme imposte sono assurde, perchè mettono fuori legge il 99% degli esercizi (per chiarezza, la cabina telefonica Telecom misura 70cm x 70 cm). Questa è, chiaramente, una legge raziale.
Qualche giorno fa è uscita la legge anti Kebab. E visto che a Milano gli unici esercizi all'aria aperta sono rimasti quelli degli stranieri... la legge è evidentemente raziale (sarebbe come se in America facessero una legge che impedisce di fare il soffritto con la cipolla; formalmente sarebbe una legge contro il cattivo odore: in realtà sarebbe una legge contro gli Italiani, perchè sono loro a fare il sugo, non i francesi).

Poi si fa il pacchetto sicurezza, e si impongono normative agli immigrati che non li discriminano direttamente, ma che, concretamente, eliminano del tutto il diritto di asilo e gli rendono la vita impossibile. Addirittura li riimpatriano verso paesi dove non si rispettano i diritti umani.
Si tratta ovviamente di una legge raziale, anzi multiraziale, perchè si applica a tutti tranne che agli italiani.
Oggi pomeriggio è arrivata anche l'intelligente trovata del deputato leghista che vuole carrozze in metro solo per i milanesi. Tra un po' arriverà anche quella di fare carrozze piombate per il rimpatrio degli immigrati.

Ovviamente la domanda successiva è: davvero possiamo aspettare che scrivano una norma dove si dice "L'Italia è diventata una dittatura"? Secondo me non la scriveranno mai, ma fa lo stesso.

giovedì 23 aprile 2009

Resistenze

Ieri ho visto il film sul Che. Al di là della figura personale del leader, mito assoluto, ho riflettuto ieri su quanti, in quegli anni a Cuba, e qualche anno prima anche in Italia, in Francia e in tanti paesi d'Europa, hanno seguito la lotta armata sulle montagne e si sono impegnati in prima persona nel combattimento contro i reazionari di tutto il mondo.

Potrei argomentare, troppo semplicemente, sulla superiorità morale del loro gesto, ma la cosa che più di tutte mi ha sconvolto è l'assoluta grandezza della scelta personale, la micro scelta di ciascuno, la motivazione e il coraggio che è stato necessario per affrontare la scelta stessa.

Sarebbe stato facile, per quelle persone, come lo fu per i fascisti in Italia, stare dalla parte della legge. Quanti di noi hanno difficoltà a far valere i propri diritti di fronte al poliziotto che ci maltratta per le cinture slacciate? Quanto coraggio ci vuole per leggere un'intera realtà nazionale, cogliere l'ingiustizia che regna nelle fila del potere, solidarizzare con i propri simili, e abbracciare la lotta armata. Quanto coraggio ci vuole per mollare tutto, la famiglia, gli affetti, e salire sulle montagne, sapendo anche che, di solito, la carogna fascista si diverte nella rappresaglia?

Il fascismo in Italia, come altrove il Nazismo e altre forme di dittatura, rappresentavano l'ordine normale delle cose, il brodo in cui le persone erano cresciute. L'antifascismo no! Era una scelta prima di tutto morale, talmente forte da farsi azione e resistenza.

Io non so se ne sarei stato capace. Ringrazio chi, cinquant'anni fa, questa scelta la fece!

venerdì 17 aprile 2009

Raccontano

Raccontano che una grande onda di piena si abbattè su due citta dirimpettaie al di là e al di qua di uno stretto solcato da antichi navigli, piccole botticelle di pescatori e traghetti di pendolari stanchi. Raccontano che non rimase nulla di una delle due e che nell'altra si diffuse il terrore e la morte per le strade inondate di acqua e di fango.

Raccontano che dal fianco della collina scese un giorno una lunga lingua di fango che sommerse le macchine, le case e le persone. Dicono che la collina, coperta di cenere nera, cedette al peso dell'acqua e che non ci fu nessuna radice, nessun tronco, ma solo erbacce a frenare la frana.

La stessa memoria hanno gli abitanti di un'altra regione, più a nord, al confine col paese delle banche. Lì il fiume si ingrossò a tal punto da travolgere i villaggi e da portare la morte in tutte le case, in tutte le famiglie. Raccontano che un Ministro degli Interni abruzzese, che tutti chiamavano Zio, ricostruì tutto in poco tempo. Lo stesso ministro, qualche anno dopo, venne accusato di usare impunemente gli elicotteri dei pompieri.

E anche qualche miglio a sud ovest raccontano di un fiume che un giorno uscì fuori dai suoi margini, e mangiò le terre del vino e delle macchine.

Raccontano che in una valle ricavata da un vecchio lago prosciugato, una conca magnifica incorniciata dalle colline, un giorno la terrà tremò, sussultò, si arrabbiò a tal punto da cancellare tutto, ma proprio tutto. Per giorni non si ebbe notizia di nulla, per giorni le persone morirono, a migliaia, sotto il peso delle pietre con le quali erano costruite le case. Il dolore e il pianto si diffuse per tutta la nazione quando un giornale illustrato disegnò la tragedia sulle sue copertine, quando i poeti, e i filosofi, fecero sentire fortissimo il grido mesto di quelle popolazioni abituate al lutto e al fato. Interi villaggi si spostarono a valle e occuparono i campi germogliati sulla sabbia del lago antico, vetuste memorie vennero abrase dalla lontananza e un esercito di piccole casupole senza storia sorsero dove prima non c'era nient'altro che il lavoro.

Così pure qualche chilometro più a sud, in mezzo a montagne gloriose che nessuno era riuscito mai a domare, un giorno la terrà si aprì e tremò. In quell'inverno gelido migliaia di persone piansero i loro morti sotto le tende dei primi soccorsi: ritardatari, colpevoli e lenti. Dicono che a distanza di tempo si vedano ancora i buchi dei picchetti delle tende, e che ancora le persone tendano l'orecchio al vento, dal chiuso delle loro capanne di legno marcio o di ferro arrugginito. Raccontano che il tremore si sentì fin nella grande città affacciata sulla baia, sotto il vulcano. Ancora oggi è possibile vedere le travi che allontanano i palazzi l'uno dall'altro e che gli impediscono di abboccarsi a vicenda, ancora oggi quelle travi sono il rifugio di briganti terribili, facce da galera cresciute all'ombra dei soldi della ricostruzione che non conosce memoria.

Raccontano che lontanissimo da lì, a centinaia di chilometri di distanza, tra vallate verdi e montagne bucate, lo stesso sisma finì all'improvviso e le persone tornarono di corsa a costruire, ad abitare e ad amarsi. Nessuno si ricorda cosa sia successo, perchè a passeggiare per quelle strade torte non è possibile che la memoria trovi appiglio.

Qualche tempo fa pare che la stessa cosa sia successa ancora e che non si sappia proprio quando tutto questo finirà. Pare che i pensieri non abbiamo ancora avuto tempo di posarsi, così come la polvere e le lacrime delle persone. Dicono tutti che tocca solo aspettare, che prima o poi succede e quel che rimane da fare è procurarsi una pala per scavare le fosse dei morti. Si sa che son crollati gli edifici che non dovevano cadere, sommergendo le vite di uomini e donne giovani, vita e speranza delle proprie terre, futuro limpido della propria gente. Si sa che il luogo dove curavano i malati si è accasciato su se stesso, uccidendo due volte il dolore dei feriti. Narrano i vecchi, che son rimasti tutti vivi per l'incantesimo che vuole i memori più longevi degli immemori, che non avevano ricordo di tutte quelle ombre incappucciate, allineate in lunghe processioni di passione, ombre che son passate sulle case in trenta secondi, o poco più, portandosi via tutti i nipoti e le nipoti.

Raccontano tutti, ma proprio tutti, di lunghe file di bare, alcune bianche altre nere, stese su prati verdi, sotto il sole o la pioggia. Raccontano di quanto tempo passò prima che la memoria smettesse di fare male. Raccontano tutti, ma proprio tutti, di macchine scure che si fermarono con il motore acceso sulla porta delle chiese, vomitando uomini scuri anch'essi che si affrettarono a rimettere in moto la fabbrica delle chiacchiere, del "non si poteva fare diversamente", del "Dio protegga questa terra". Raccontano tutti, ma proprio tutti, che sapevano prima del tempo che il fato si sarebbe prima o poi abbattutto, ma che nessuno, proprio nessuno, abbia fatto nulla perchè il fato si fermasse.

giovedì 9 aprile 2009

Eroi

Adesso diranno al mondo che siamo una popolazione eroica. Faranno un'equazione sciocca tra il ricordo pietoso dei morti, di quelli che se ne sono andati, e il dolore dei vivi. Diranno che i popoli dell'Abruzzo sono "dignitosi", "resistenti", "operosi", temprati, come le piante d'altura, dal gelo, dal freddo e dai terremoti, dalla storia. Verranno a dirci che non ci siamo piegati al dolore, alla perdita dei cari, delle case, dei beni materiali, diranno che ci rimane il senso della realtà, del fare.
Adesso ci incenseremo al vento degli altipiani, che di questi tempi sono ancora coperti di neve, faremo in modo che il vento non porti via il nostro odore alle narici dei lupi, e ci nasconderemo come al solito, questa volta sciacallando i morti che sono stati, gli uomini, le donne, i ragazzi, che se ne sono andati.
Eppure io penso che sia il momento di darsi collettivamente la colpa. La colpa della distruzione, della rovina e delle bare. Ci dicono: un terremoto non è prevedibile. Falso, falsissimo. Non è prevedibile dove e quando colpirà, ma in mezzo a quelle montagne un terremoto è una certezza matematica, prima o poi colpisce. E noi, dopo Avezzano nel 1915, abbiamo perso un secolo in chiacchiere, senza muovere un dito per fare in modo che la tragedia non si ripetesse. Siamo una nazione, e in una nazione sono responsabili tutti: i politici che non han fatto le leggi, i progettisti che non le hanno applicate, le ditte che hanno risparmiato sui materiali, i cittadini che hanno vigilato, non hanno ristrutturato, hanno comperato senza informarsi.
Siamo colpevoli tutti, e ciascuno con la propria singola, specifica, responsabilità. Niente di generico. Niente che nel tutti cancelli la responsabilità dei singoli.
Dobbiamo dirci spietatamente la verità, e cioè che la nostra festa nazionale continua ad essere domani, il Venerdì Santo, il giorno in cui tutti ci chineremo a baciare il costato di Gesù crocifisso, il giorno in cui rinnoveremo la nostra fedeltà alla Croce. Per noi popolazioni del Sud è l'atto di sottomissione alla fatalità dell'esistenza, una fatalità che non riusciamo mai a portare fino alla resurrezione, mai. Vale su tutto il pendolare autistico dei questanti in processione dietro il Cristo Morto, non Vale, invece, il coraggio che sconfigge la morte del Signore Risorto.
Fino a quando ci diremo che quell'adorazione non basta, che la Croce si porta, ma che si porta in un dove positivo, in un altrove migliore, in un futuro più luminoso? Che non siamo condannati al dolore, alla fatalità dell'esistenza? Per una volta ancora vale lo stupore di Flaiano di fronte alla catastrofe di Avezzano, il rimanere attoniti di fronte ad una popolazione che se lo aspettava, che non aveva fatto nulla affinché non accadesse e che si rassegnava ancora una volta, ancora una volta piegando la testa.
Adesso non è il momento per autocelebrarsi, ma è arrivata l'ora di attribuirsi, ciascuno per sè, la responsabilità di quanto è accaduto. Con la speranza che questa accettazione della Croce, ci porti a farla scomparire.

mercoledì 8 aprile 2009

Si sta...

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

lunedì 9 marzo 2009

La pressione antropica

L'essere umano è l'unico animale sulla terra che abbia davvero sconfitto la morte. In qualche modo ha fatto sì che il numero di individui presenti sul territorio superasse di gran lunga la portata delle risorse sufficienti alla loro sussistenza. Nei secoli ha stabilito strategie di protezione dagli agenti naturali tali da aumentare le proprie capacità di sopravvivenza, consapevole del fatto che il numero di soggetti appartenenti al proprio gruppo umano fosse proporzionale alla quantità di risorse accumulabili, consapevole del fatto che tali risore fossero aumentabili a piacimento (tramite l'agricoltura e l'affinamento delle tecniche di caccia prima, tramite l'industria e la scienza poi).
La conseguenza di questo fatto è evidente. Mentre ogni essere vivente si misura ogni giorno con la scarsezza di risorse e vede calmierato il numero degli appartenenti al proprio gruppo proprio da questo fattore, l'essere umano concepisce il gruppo a sè opposto come limite del proprio sviluppo. Fin tanto che risulta possibile aumentare le proprie risorse tramite il lavoro i membri del gruppo sono chiamati a moltiplicare gli sforzi per accrescerle. Nel momento in cui questo non è più possibile l'uomo stabilisce strategie aggressive contro i membri dei gruppi direttamente concorrenti.
Ma questo smaterializza due volte il valore del soggetto. Nel gruppo il suo valore è dato dalla quantità di lavoro, dalla capacità di reperire risorse, dal grado di accordo rispetto agli obiettivi del gruppo stesso. Nella guerra il suo valore diventa nullo, perchè la sua vita è sacrificabile rispetto ai benefici della vittoria. E' per questo che il deviante e il disertore sono i più bistrattati di qualunque società, è per questo che chi si riappropria del valore del proprio corpo non ha diritto di cittadinanza in nessun gruppo umano.
Stamattina guardavo un reportage degli anni '90 sulla guerra in Ruanda appena terminata. In una prigione/recinto capace di contenere 400 persone erano stipate, all'epoca, almeno 7000 persone, con un sovraffollamento da carnaio. Quelle immagini di una guerra dimenticata sono l'evidente dimostrazione del valore di ciascun soggetto. La sola domanda che rimane da porsi è, a questo punto, quanto ciascuno di noi è responsabile della propria schiavitù.

giovedì 19 febbraio 2009

Quando le palpebre cadono

Da quando ho deciso di lasciare la macchina a casa le cose sono estremamente più chiare. Più netta è la mia percezione della costruzione del mondo, della vita della città, delle sue contraddizioni e dei suoi drammi. Come soldatini tutte le mattine ci incamminiamo verso il luogo nel quale guadagneremo il nostro denaro, come soldatini, tutte le sere torniamo a casa a spenderlo. O a riposarci per guadagnarlo meglio.
Come tanti piccoli automi facciamo una vita pendolante, tra due punti distinti, con qualche ora di relax per ricaricare le pile e qualche weekend che ci illudiamo ci dia un po' di libertà (che, di solito, non siamo in grado di goderci).
Qualche sera fa ho visto la pubblicità di un prodotto cosmetico che si propone di eliminare l'effetto della caduta delle palpebre e lì, come sempre, mi è venuto da sorridere. Perchè le palpebre non sono le occhiaie, che sono una forma di stanchezza, esse, quando sono cadute, sono il callo vivo della nostra prostrazione morale. Sono il sintomo evidente che ci siamo abituati a tenere gli occhi bassi, gli sguardi spenti, senza entusiasmo e senza sorrisi. La palpebra è il contrario dell'occhiaia, che è un effetto ironico dell'esaurimento delle energie, tangibile e deprecabile, anche dopo una nottata di baldoria. La palpebra è la saracinesca della nostra anima, quella che apre e chiude il nostro cuore agli altri, alla vita. Una palpebra ci consente di aguzzare lo sguardo, di imprimere interesse su una cosa, di evitare di guardare le cose belle o brutte. Se cade, se è incapace di rialzarsi, vuol dire che non la utilizziamo abbastanza.
Già, ordinariamente, la sacrifichiamo alla nostra attività lavorativa, alla perdita dei nostri sogni, all'abbandono dei progetti, alla fine della freschezza dell'adolescenza; già normalmente il pendolare della nostra ricerca schiavizzata di denaro fa sì che le nostre palpebre non siano più le stesse (pensate a quelle vecchie e sagge palpebre che hanno gli anziani quando esprimono dolore o sopresa o saggezza). Adesso ci costringono anche a ricomprarcele, le nostre palpebre, acquistando un simpatico flaconcino, che forse ridarà un po' di freschezza allo sguardo, ma che di certo non ci restituirà il nostro tempo, la nostra gioia, i nostri desideri.

mercoledì 18 febbraio 2009

De l'infinito, universo e mondi

"Se io, illustrissimo Cavalliero, contrattasse l'aratro, pascesse un gregge, coltivasse un orto, rassettasse un vestimento, nessuno mi guardarebbe, pochi m'osservarebono, da rari sarei ripreso e facilmente potrei piacere a tutti. Ma per essere delineatore del campo de la natura, sollecito circa la pastura de l'alma, vago de la coltura de l'ingegno e dedalo circa gli abiti de l'intelletto, ecco che chi adocchiato me minaccia, chi osservato m'assale, chi giunto mi morde, chi compreso mi vora; non è uno, non son pochi, son molti, son quasi tutti. Se volete intendere onde sia questo, vi dico che la caggione è l'universitade che mi dispiace, il volgo ch'odio, la moltitudine che non mi contenta, una che m'innamora: quella per cui son libero in suggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade e vivo ne la morte; quella per cui non invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei piaceri, son poveri ne le ricchezze e morti ne la vita, perché nel corpo han la catena che le stringe, nel spirto l'inferno che le deprime, ne l'alma l'errore che le ammala, ne la mente il letargo che le uccide; non essendo magnanimità che le delibere, non longanimità che le inalze, non splendor che le illustre, non scienza che le avvive. Indi accade che non ritrao, come lasso, il piede da l'arduo camino; né, come desidioso, dismetto le braccia da l'opra che si presenta; né, qual disperato, volgo le spalli al nemico che mi contrasta; né, come abbagliato, diverto gli occhi dal divino oggetto; mentre, per il più, mi sento riputato sofista, più studioso d'apparir sottile che di esser verace; ambizioso, che più studia di suscitar nova e falsa setta che di confirmar l'antica e vera; ucellatore, che va procacciando splendor di gloria con porre avanti le tenebre d'errori; spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si fa fondator di machine di perversitade."

Giordano Bruno, De l'infinito, univerto e mondi, Proemio

lunedì 16 febbraio 2009

Il sorriso di Formigoni

Girando per il web si scopre, stando ai numeri del Censur, che "Secondo i dati aggiornati al 31 marzo 2003, in Italia i cattolici battezzati sono 55.752.000 su 57.610.000 cittadini (pari al 96,77%), e fra il 33 e il 38% della popolazione complessiva – secondo varie e recenti stime – è praticante; di questi fedeli, il 10% circa appartiene a movimenti laicali".

Questi numeri spiegano, ovviamente non da soli, il sorriso di Formigoni nell'ultima puntata di Anno Zero. Un terzo degli italiani è praticante, un decimo fa parte di movimenti come Opus Dei, CL, Focolarini, Neocatecumenali, ecc. Un decimo della popolazione, tradotto in soldoni, fa parte di movimenti oltranzisti, più vicini a gruppi militari (non armati) e agli estremisti islamici, che non a gruppi di simpatici fedeli.

Quando caddè l'ultimo pezzo della DC, Ruini e la sua CEI decisero di modificare radicalmente la loro strategia politica: non più appoggiare un singolo partito, col rischio di dover ingoiare leggi necessarie alla governabilità del paese (come aborto e divorzio), ma un appoggio ad assetto variabile, rivolto alle forze politiche che garantissero affidabilmente una visione religiosa ed integralista dell'agire politico, nonchè le necessarie prebende essenziali per la sopravvivenza del clero (si veda "La questua" di Curzio Maltese edito da
<>Feltrinelli).
Spostare il 35% dei voti degli italiani non è poi tanto difficile se si usa la forza della persuasione ecclesiastica amplificata dalla copertura costante e continua delle parole papali effettuata da tutte le reti nazionali (mi chiedo cosa ne pensi il presidente di San Marino). Questo 35% diventa ancor più spaventoso se gli sommiamo la pletora di baciapile che considerano le parole del papa un elemento di orientamento morale e civile.


Ma i numeri vanno letti in relazione alla dinamica elettorale corrente. Considerando che le elezioni si vincono per un pugno di voti (23,33 bel 1994, 12,3 nel 1996, 18,7 nel 2001, 0,065 nel 2006, 9,266 nel 2008) e che questo pungno tende a diventare sempre più piccolo, considerando che partiti di ispirazione cristiana si distribuiscono su tutto l'arco parlamentare, basta orientare il solo 10% dei "laici" per far vincere o perdere un'elezione.


E questo spiega il sorriso di Formigoni. In una serata che avrebbe dovuto esser triste, col pensiero di una persona morta come scenario, Formigoni rideva. Rideva perchè sa che, per l'ennesima volta l'Italia è stata messa sotto scacco, costretta a scegliere, illegittimamente, tra la vita e la morte, a radicalizzare le sue opinioni, a schierarsi "a prescindere", senza vivere realmente sulla propria pelle il dramma della malattia, della morte e dell'accanimento terapeutico, costretta a polarizzarsi sulle parole del papa, che alle orecchie dei cattolici suonano come corni di guerra nel corso di una battaglia. Formigoni rideva alla faccia della maggioranza della popolazione che non la pensa come lui, perchè sa perfettamente che basta incattivire la minoritaria fascia dei cattolici per conservare il potere, accrescerlo, radicalizzarlo su posizioni religiose: in parole semplici, spostare voti per vincere le prossime tornate elettorali.

L'impressione che ho avuto, e non credo di sbagliarmi, è che quello fosse il sorriso dello sciacallo che non ha nessun sentimento per la persona morta tra atroci sofferenze e che calcola, con il bilancino dell'usuraio, il guadagno, monetario, morale e politico, che quella morte avrà per la sua parte. L'osservazione del viscidume di quel sorriso è la misura esatta dell'uso cinico che una certa parte politica fa della religione; è la cartina di tornasole del gioco perverso che ogni giorno si fa alle spalle del popolo, della laicità della nazione e della democrazia stessa.

martedì 10 febbraio 2009

Cosa contraddistingue

Cosa contraddistingue il cattolicesimo romano. Ingenuamente si risponderebbe con i canoni e la dottrina, il messale e i dogmi, dalla trinità all'immacolata concezione, la fede in Cristo e nelle sue parole. A me sembra invece che la cifra distintiva sia la capacità di restare a galla, attaccata ferocemente ai suoi provilegi, alle sue garanzie, ai suoi beni materiali.
Proviamo brevemente a rifletterci. Fino al due secoli fa la battaglia era materialissima, ed era banalmente per il territorio e il controllo sulle monarchie europee che andavano unte tutte perchè fossero legittime. Il papato combattè contro la rivoluzione francese, i moti carbonari e le rivendicazioni borghesi.

Prima ancora era per la centralità papale, che era indiscutibile, e per la quale si sterminarono milioni di protestanti, streghe e quant'altro. Papa Gilio II usciva a cavallo bardato da militare e non ci pensava minimamente a sacralizzare la vita, visto che il punto focale restava il potere politico e non la parola di Dio.

Facendo qualche passo indietro troviamo la più bella risposta alla "strenua difesa della vita" oggi tanto sbandierata, e ce la da Arnaud Amaury sotto le mura di Béziers, all'atto di sferrare l'ultimo attacco contro i Catari. Alla domanda di un suo soldato che gli chiedeva come avrebbero dovuto salvare i cristiani dagli eretici, l'abate di Citeaux rispondeva: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi".

Alla fine dell'800 la scomunica colpiva i socialisti, visto che la loro rabbia si appuntava anche contro i possedimenti religiosi, le terre, i domini e le prebende. Il dogma divenne improvvisamente la nobiltà, il possesso e la proprietà. Solo più tardi la chiesa si sarebbe svegliata, perchè rischiava che un'estensione generalizzata dei diritti verso i più poveri, la loro alfabetizzazione, il riconoscimento della centralità del soggetto come portatore di interessi intaccasse il monopolio della carità : se un uomo è tale non c'è bisogno della Chiesa che si pone come mediatrice tra i suoi bisogni e il potere.

Nella storia passata la Chiesa si è trovata sempre un passo indietro, ad inseguire il gregge che dovrebbe guidare. E mentre il gregge cresceva e prendeva coscienza di sè le gerarchie vaticane perdevano pezzi progressivi di potere.

Negli anni settanta si sono battuti contro il divorzio e l'aborto, oggi contro il testamento biologico e l'eutanasia. La chiave di tutto è sempre la coscienza delle persone, il controllo dei gangli vitali delle persone (il battesimo, il matrimonio, l'estrema unzione), ultimo ridotto in cui la Chiesa può vantare un po' di potere, e non solo morale. Se le persone si liberano addio 8 per mille, addio donazioni, addio tutto. E allora la parola d'ordine diventa "difesa della vita". Dopo secoli di massacri di donne ed eretici, dopo le croci fatte sfilare in marcia verso la Terra Santa, dopo la benedizione degli eserciti pronti ai peggiori massacri, questa "difesa" suona francamente ridicola, opportunista e penosa.

A monte non c'è l'incapacità di capire che la responsabilità degli atti risiede nella persona. A questo, se ci si mettono a pensare, ci arrivano anche i Vescovi più oscurantisti. A monte c'è la difesa di sè. Se a questo aggiungiamo l'amplificazione che alle parole papali da normalmente la politica, si capisce come questo non sarà mai un paese normale.

Ponte Vittorio Emanuele II

Quando i padri unitari presero possesso di Roma lo fecero contro il Vaticano. Avevano capito, loro, che l'arretratezza della nostra nazione era dovuta ai giochetti secolari che da millenni si orchestravano oltre tevere. Per secoli il Vaticano aveva messo gli stati italiani gli uni contro gli altri, e questo consentiva al Papa di vivere tranquillo nei suoi palazzi. Certo, conquistare il colle oltre Tevere era una questione di potere, ma era anche frutto della necessità di far uscire il paese dal medioevo, dalla barbarie di un potere che controllava, indistintamente, le coscienze e i territori.
E così si arrivò a Porta Pia.
Quando nel 1886 Ennio de Rossi venne chiamato a progettare il Ponte Vittorio Emanuele II tutto era ancora estremente chiaro. Quando venne inauguato, nel 1911, il ponte si presentò al pubblico con una simbologia chiarissima: quattro vittorie alate davano l'accesso alle campate, solo che c'era una piccola, notevole differenza tra quelle che guardavano il Vaticano e quelle che guardavano la sponda "Italiana".
Le prime, erano poste a difesa dello stato, portavano l'elmo, la spada e lo scudo. L'una, quella di sinistra, era ferma in posizione di difesta, la seconda, invece, mostrava in alto la spada in segno di sfida. Erano la prima linea di difesa verso la laicità dello stato, quasi che il fiume fosse concepito come trincea naturale contro le bordate del Papa. Lo Stato percepiva in maniera chiara che l'ingerenza vaticana era e restava un pericolo.

Le seconde, rivolte verso la sponda sinistra, porgevano la "Vittoria" alla nazione, in una spinta entusiastica si protendevano verso il centro politico d'Italia brandendo non la spada ma la corona d'alloro, la panoplia militare, la gloria per l'unità.
Oggi, dopo giorni di barbarie mediatica, ingerenze continue, attacchi alle istituzioni, politicanti accodati al Vaticano per rubare un po' di consenso, baciapile senza dignità, giudizi dati senza conoscenza di nulla, opportunismi nauseanti, preti sterili che parlano di paternità, presentatori caini che piagnucolano come verginelle nella recita a soggetto del dolore, gerarchie ecclesiastiche che tuonano dai pulpiti nel timore di perdere il controllo sulla morte (visto che il funerale è l'ultimo sacramento che amministrano copiosamente), Presidenti del Consiglio che si infilano nella breccia per sferrare l'ultimo attacco alle istituzioni, Papi senza nessun contatto con la vita reale, chiusi a riccio nei loro palazzi tinteggiati d'oro, oggi, proprio oggi, rimpiango quei padri liberali e massoni, quegli uomni liberi e determinati, che sfondarono quella muraglia che da secoli ci sprofondava nell'oscurantismo.

venerdì 23 gennaio 2009

RiPoteri

Negli anni della mia formazione politica valutavo l'atto rivoluzionario come punto puro di svolta della storia. Ovviamente presupponevo che la storia potesse essere svoltata a piacimento, tanto per l'azione di specifici gruppi umani (organizzati), quanto per la convergenza, in un dato momento strutturalmente maturo, di interessi volti al cambiamento dei sistemi.
La mia visione delle cose non è cambiata sostanzialmente, solo stressa in maniera più decisa l'aspetto sociale del potere, soprattutto in relazione a quanto accade normalmente nel nostro paese.

Ho parlato ampiamente di Tangentopoli, mi sono dilungato più del dovuto, sul fatto che i partiti della prima repubblica siano stati abbattuti non tanto dagli atti della Procura di Milano, quanto dal venir meno della base sociale sulla quale quei partiti si fondavano.
Ovviamente, come per tutte le cose, anche questa verità è parziale. Come nei meccanismi tettonici i fluidi sotterranei si spostano e si ricompongono pur restando sostanzialmente gli stessi, anche in politica lo spostamento dell'opinione pubblica determina cambiamenti, ma ciò non toglie che i bisogni espressi da questi gruppi si ricompongano prima e convergano verso altre formazioni politiche.

Credo che questa sia una delle espressioni più tipiche della politica italiana. Correnti, gruppi di pressione, consorterie, parentele familiari legittime e illegittime, corporazioni, sindacati, associazioni, costituiscono l'ossatura stabile del potere, che può spostarsi quanto si vuole, ma rimane sostanzialmente intatta nel tempo, perchè si fonda su rapporti personali e non sulla valutazione aperta e drammatica del reale. Paradossalmente questa struttura delle relazioni politiche pervade la società quasi completamente, e nel quasi rimangono solo quanti non hanno mai goduto di un "aiutino" nella vita.

Si potrebbe divertirsi a fare il tiro al bersaglio al potente di turno, ma non si eliminerebbe mai la sorgente che genera e rigenera questi potenti.

venerdì 16 gennaio 2009

Poteri

Mi scopro sempre più spesso a valutare l'arroganza del potere. La mia tolleranza, la voglia di giustificare, la necessità di capire si assottigliano ogni giorno di più. Cresce, al contrario, la consapevolezza dell'impersonalità delle strutture di comando. La loro natura corporativa si rivela ogni giorno di più, la nostra incapacità di controllo sempre più depressa.

sabato 3 gennaio 2009

Le Distanze 2

Potrei dire, unendomi al coro, che la destra ha compiuto un'azione fraudolenta. Che ha sfruttato i meccanismi di comunicazione aziendale per generare una nuova sfera del politico. Si potrebbe anche dire, come fanno in tanti, che a destra c'è una sorta di vuoto pneumatico, che regna la stupidità, ecc. E invece io voglio tornare alle persone di capodanno, partendo da una premessa ovvia; lo spazio elettorale perso dalla sinistra è il risultato di due meccanismi:

1) non sappiamo più cosa dire alla gente del Capodanno. Non nego che lo scollamento dalla vita sia proprio di tutte le compagini sociali, ma è anche evidente che coloro che questo scollamento è proporzionale alla capacità di spesa, alla ricchezza, all'urbanizzazione. E' innegabile che la gente del Capodanno, per il lavoro che fa, per lo stipendio che porta a casa, per le reti sociali in cui si colloca, è più vicino alla vita di quanto lo sia una certa sinistra. Siamo ancora in grado di proporre loro qualcosa? Siamo ancora in grado di far nostri i loro problemi? Siamo nelle condizioni di capire quali sono davvero le soluzioni che preferiscono? E' evidente che no! non ne siamo in grado. Negli anni 50 la sinistra, il suo sindacato di riferimento, erano assonati come un diapason verso certe classi popolari. Le rivendicazioni per la terra, per il salario, per i diritti minimi da garantire ai singoli, erano terreno di comune rivendicazione. Gli scioperi dei braccianti agricoli, le occupazioni delle fabbriche per la carta dei diritti dei lavoratori, le marce per i rinnovi dei contratti, erano il terreno comune sul quale i dirigenti sindacali e politici incontravano quella che si chiamava correttamente "la base", perchè davvero sorreggeva tutta la piramide. E questo valeva anche al centro (destra) ovviamente, perchè i dirigenti della DC erano incardinati nella società come e più dei comunisti, ne respiravano la stessa aria, ne bevevano le stesse aspirazioni e le stesse paure. E adesso? che fine ha fatto questo legame?

2) siamo talmente lontani da casa che l'unica cosa che possiamo fare è serrare i ranghi e le fila della nostra compagine raminga. Sono talmente tanti gli anni luce di distanza della nostra verbosità rispetto alle reali necessità delle persone del Capodanno che ormai non possiamo più farci sentire. Si può solo cercare di raccogliersi intorno a se stessi, contarsi continuamente cercando di capire chi c'è e chi è andato via. Si può solo tentare di "aprire un dibattito" sulle cause della diaspora, sulle motivazioni della dipartita, perchè se anche riuscissimo ad intercettare i dipartiti non sapremmo davvero che raccontargli. Interminabili discussioni sulla lotta degli indiani d'america, infinite dissertazioni sul ruolo della resistenza, immancabili richiami alla lotta per l'estenzione dei diritti di cittadinanza, ampollose analisi sulla dinamica in corso nello scacchiere centro asiatico, improvvisate sortite sul ruolo delle multinazionali nell'impoverimento delle ricchezze del pianeta, drammatici e accorati appelli per la salvezza dell'ecosistema... e in tutto questo nemmeno una parola per un salariato, per la famiglia con il malato senza assistenza pubblica, per l'agricoltore che viene stritolato dai prezzi alla vendita, per l'aumento drammatico del costo della vita, della benzina e del pane. Un silenzio talmente assordante negli anni scorsi che quando, finalmente, qualcuno si è accorto che c'era bisogno di ricominciare da 0, i suoi disorsi sono suonati falsi, vuoti e inconsistenti, come accade quando non ci si è mai immedesimati, mai immersi fino al collo nella vita reale.

Le distanze

Di fronte all'umanità del capodanno mi chiedo chi abbia costruito la distanza. Potrei rispondermi che la società multipolarizzata e parcellizzata genera necessariamente microtribu, che la diversificazione delle competenze della società determina una divaricazione degli stili e dei modi di vivere. Potrei anche ancorarmi sul solito discorso relativo all'influenza dei media, nascondermi dietro al dito di una presunta modificazione prospettiva della realtà che non lascia spazio a nient'altro che alla propria mistificazione.
Non nego che ciascuno di questi fattori abbia influito sulla costruzione della distanza. Non nego nemmeno che ci sia sotteso, almeno per qualcuno di questi elementi, un elemento deliberazione volontaria che determina un preciso utilizzo di mezzi propri e impropri per determinare questa distanza. Ma di che distanza stiamo parlando.
A mio avviso esistono due distanze che si sono prodotte nel corso del tempo.
La prima la rubo a man bassa da Pasolini e dal suo discorso delle lucciole. E' evidente che vi sia stato uno scollamento della nostra percezione dall'universo della vita. E per vita intendo quella scala assoluta di valori sulla quale si sono fondate le società per secoli: la maternità, la malattia, la diversità biologica, l'accettazione del dolore, la morte, l'ineluttabilità della sfera parentale. La costruzione di una sovrastruttura immateriale ha eliminato la percezione del nostro agire biologico, preludio all'ingresso nella nostra esistenza di bisogni prima sconosciuti, cavallo di troia per l'eliminazione della razionale capacità di distinguere l'utile dall'inutile.
La seconda è una distanza consegue dalla prima, perchè consiste nella creazione, orma atavica di un mondo "intellettuale" possessore di categorie mentali valide per tutte le stagioni, e di un mondo "materiale" nel quale i soggetti sono esposti, come in una palla di vetro, all'osservazione da parte di quanti fanno parte del primo mondo.
Queste due distanze agiscono concomitantemente e derminano conseguenze drammatiche sulla sfera del politico. Perchè se da un lato la prima distanza modifica la percezione dei singoli, la seconda, dall'altra, informa l'agire della mediazione politica. In altri termini: da una parte le persone sono state abituate a vivere lontane dai propri bisogni reali perchè immerse nei meccanismi della produzione industriale che ne determina consciamente e inconsciamente i desideri. Dall'altra il politico ha, di volta in volta, sfruttato e disprezzato questa distanza, sia perchè, come a destra, ha avuto la prontezza di increnare meccanismi di comunicazione assonanti a quelli del mondo della produzione, sia perchè, come a sinistra, si è rifugiato nella propria torre d'avorio, malcelando il disprezzo naturale per quanti sono al di fuori della propria sfera intellettuale.

venerdì 2 gennaio 2009

2009

La notte del primo abbiamo fatto le cose normali che tocca fare in provincia. Cenone in ristorante, animazione disgraziatissima e poi via a vedere se nella più vicina discoteca c'era qualcosa da fare. Statale lunga e dritta adagiata sul fondo di una valle fluviale tra filari di colline. Statale di piccoli stabilimenti industriali, magazzini, meccanici e carrozzieri. Tra queste strutture, vicino ad un deposito di cioccolata e non lontano dalla concessionaria di auto del papà di un caro amico, c'è un grosso "capannone" di quelli che normalmente sono destinati ad ospitare un carroponte per lavorazioni meccaniche. Questo "capannone" è la discoteca di cui sopra.
Non che ci aspettassimo gran ché. Sinceramente. La previsione era stata bi-articolata come segue dal mio amico Livio :
1) il locale sarà pieno di "cafoni" in alternativa pieno di ragazzini.
2) in ogni caso, se ci chiedono più di 10 Euro non entriamo.
Siamo entrati (a 10 Euro) e ci siamo guardati intorno. Non vi nego, perchè non potrei, che non si trattava del genere di persone che sono abituato a frequentare. Signore non proprio giovanissime acchittate per la festa col vestito di paillettes, ventri leggermente lasciati andare sotto tubini di strasse, gambe muscolose su stivali al ginocchio, alcuni non proprio ortodossi, capelli cotonati e ori sgargianti su colli di foggia diversa, ma tutti tendenzialmente già avvezzi alla ruga, all'imperfezione. Madri di famiglia, per una sera votate al ballo di gruppo, oppure normalmente frequentatrici della "balera" (che da noi, almeno linguisticamente, non esiste).
Signori - di tutte le età - con sgargianti cravatte dal nodo megalitico, camicie a quadri tese sui bicipiti e sulle pance pingui da lavoratori agricoli. Uomini coi ventri tesi come tamburi oppure magrissimi e allampanati, vestiti in magliette che non avrebbero mai acquistato se non fossero stati a Capodanno. Padri scaraventati verso l'eccesso di spumante, trotterellanti intorno ai loro divanetti bassi per mangiare l'ennesima fetta di panettone scadente da cenone di capodanno.
Ragazzine assortite, di tutte le taglie, alcune piccole piccole, bambine accompagnate dai genitori per l'unica serata di festa concessa aell'anno, altre bellissime, e consapevoli di esserlo, floride, nascoste dalle famiglie in case di campagna isolate dal mondo, e mostrate, per una sera, in tutto il loro fulgore di femmine fatte e finite, di proprietarie gelose del proprio patrimonio.
Ragazzoni di questa provincia "meno prospera" ma non ancora "povera". Maglie sgargianti, scarpe da tennis tecnicissime sotto pantaloni pseudo-eleganti, inserti di raso in giacche nere, lucenti file di paillettes a scrivere il nome dell'ultima marca fondata dall'ultimo campione di calcio fallito, scarpini di tacco con fibie lucenti, di quelle che fanno male ai piedi quando non ci sei abituato. Jeans di tutti i giorni abbinati a camicie sgargianti, senza fiori per fortuna, ma con colletti esagerati, di due o tre bottoni, come si usavano qualche anno fa, perché qui, non ne faccio mistero, l'introduzione delle innovazioni segue strade tortuose. E tutto questo adagiato su fisici veri, senza affettazione né deformazione: fisici magri di ragazzi per costituzione un po' tisici; grossi ventri da mangiatori per fame, quella che ti viene dopo un giorno di lavoro, quello vero; visi bianchi che non hanno mai visto una lampada, o un po' rubizzi per il vino e lo spumante di Capodanno; bicipiti veri, fatti a furia di caricare e scaricare roba, o di portare il trattore o il camion, se va bene. Dita callose che non ammettono manicure, che non la sopporterebbero, unghia tagliate cortissime, come di chi si è accorto di aver le mani un po' rovinate e l'unica cosa che può fare è eliminare completamente la parte da aggiustare.
Insomma, un'umanità che, a guardarla da vicino, potresti definire "cafona". Cafona perchè viene dalla terra e dal lavoro, cafona perchè ha sempre vissuto nel suo quadrato di strade, nella casa paterna, lontano da qualunque affettazione nevrotica, da qualunque necessità precostituita. L'umanità che l'estate, quando non lavora, si porta l'ombrellone da casa e pascola sulla spiaggia di Montesilvano molto, molto rumorosamente. Quella che sale in montagna con la fornacella degli arrosticini e passa la giornata a mangiare. L'umanità che vive di bisogni reali, di aspirazioni piccole, concrete e dolorose. L'umanità che facciamo finta che non esista.