giovedì 19 febbraio 2009

Quando le palpebre cadono

Da quando ho deciso di lasciare la macchina a casa le cose sono estremamente più chiare. Più netta è la mia percezione della costruzione del mondo, della vita della città, delle sue contraddizioni e dei suoi drammi. Come soldatini tutte le mattine ci incamminiamo verso il luogo nel quale guadagneremo il nostro denaro, come soldatini, tutte le sere torniamo a casa a spenderlo. O a riposarci per guadagnarlo meglio.
Come tanti piccoli automi facciamo una vita pendolante, tra due punti distinti, con qualche ora di relax per ricaricare le pile e qualche weekend che ci illudiamo ci dia un po' di libertà (che, di solito, non siamo in grado di goderci).
Qualche sera fa ho visto la pubblicità di un prodotto cosmetico che si propone di eliminare l'effetto della caduta delle palpebre e lì, come sempre, mi è venuto da sorridere. Perchè le palpebre non sono le occhiaie, che sono una forma di stanchezza, esse, quando sono cadute, sono il callo vivo della nostra prostrazione morale. Sono il sintomo evidente che ci siamo abituati a tenere gli occhi bassi, gli sguardi spenti, senza entusiasmo e senza sorrisi. La palpebra è il contrario dell'occhiaia, che è un effetto ironico dell'esaurimento delle energie, tangibile e deprecabile, anche dopo una nottata di baldoria. La palpebra è la saracinesca della nostra anima, quella che apre e chiude il nostro cuore agli altri, alla vita. Una palpebra ci consente di aguzzare lo sguardo, di imprimere interesse su una cosa, di evitare di guardare le cose belle o brutte. Se cade, se è incapace di rialzarsi, vuol dire che non la utilizziamo abbastanza.
Già, ordinariamente, la sacrifichiamo alla nostra attività lavorativa, alla perdita dei nostri sogni, all'abbandono dei progetti, alla fine della freschezza dell'adolescenza; già normalmente il pendolare della nostra ricerca schiavizzata di denaro fa sì che le nostre palpebre non siano più le stesse (pensate a quelle vecchie e sagge palpebre che hanno gli anziani quando esprimono dolore o sopresa o saggezza). Adesso ci costringono anche a ricomprarcele, le nostre palpebre, acquistando un simpatico flaconcino, che forse ridarà un po' di freschezza allo sguardo, ma che di certo non ci restituirà il nostro tempo, la nostra gioia, i nostri desideri.

mercoledì 18 febbraio 2009

De l'infinito, universo e mondi

"Se io, illustrissimo Cavalliero, contrattasse l'aratro, pascesse un gregge, coltivasse un orto, rassettasse un vestimento, nessuno mi guardarebbe, pochi m'osservarebono, da rari sarei ripreso e facilmente potrei piacere a tutti. Ma per essere delineatore del campo de la natura, sollecito circa la pastura de l'alma, vago de la coltura de l'ingegno e dedalo circa gli abiti de l'intelletto, ecco che chi adocchiato me minaccia, chi osservato m'assale, chi giunto mi morde, chi compreso mi vora; non è uno, non son pochi, son molti, son quasi tutti. Se volete intendere onde sia questo, vi dico che la caggione è l'universitade che mi dispiace, il volgo ch'odio, la moltitudine che non mi contenta, una che m'innamora: quella per cui son libero in suggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade e vivo ne la morte; quella per cui non invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei piaceri, son poveri ne le ricchezze e morti ne la vita, perché nel corpo han la catena che le stringe, nel spirto l'inferno che le deprime, ne l'alma l'errore che le ammala, ne la mente il letargo che le uccide; non essendo magnanimità che le delibere, non longanimità che le inalze, non splendor che le illustre, non scienza che le avvive. Indi accade che non ritrao, come lasso, il piede da l'arduo camino; né, come desidioso, dismetto le braccia da l'opra che si presenta; né, qual disperato, volgo le spalli al nemico che mi contrasta; né, come abbagliato, diverto gli occhi dal divino oggetto; mentre, per il più, mi sento riputato sofista, più studioso d'apparir sottile che di esser verace; ambizioso, che più studia di suscitar nova e falsa setta che di confirmar l'antica e vera; ucellatore, che va procacciando splendor di gloria con porre avanti le tenebre d'errori; spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si fa fondator di machine di perversitade."

Giordano Bruno, De l'infinito, univerto e mondi, Proemio

lunedì 16 febbraio 2009

Il sorriso di Formigoni

Girando per il web si scopre, stando ai numeri del Censur, che "Secondo i dati aggiornati al 31 marzo 2003, in Italia i cattolici battezzati sono 55.752.000 su 57.610.000 cittadini (pari al 96,77%), e fra il 33 e il 38% della popolazione complessiva – secondo varie e recenti stime – è praticante; di questi fedeli, il 10% circa appartiene a movimenti laicali".

Questi numeri spiegano, ovviamente non da soli, il sorriso di Formigoni nell'ultima puntata di Anno Zero. Un terzo degli italiani è praticante, un decimo fa parte di movimenti come Opus Dei, CL, Focolarini, Neocatecumenali, ecc. Un decimo della popolazione, tradotto in soldoni, fa parte di movimenti oltranzisti, più vicini a gruppi militari (non armati) e agli estremisti islamici, che non a gruppi di simpatici fedeli.

Quando caddè l'ultimo pezzo della DC, Ruini e la sua CEI decisero di modificare radicalmente la loro strategia politica: non più appoggiare un singolo partito, col rischio di dover ingoiare leggi necessarie alla governabilità del paese (come aborto e divorzio), ma un appoggio ad assetto variabile, rivolto alle forze politiche che garantissero affidabilmente una visione religiosa ed integralista dell'agire politico, nonchè le necessarie prebende essenziali per la sopravvivenza del clero (si veda "La questua" di Curzio Maltese edito da
<>Feltrinelli).
Spostare il 35% dei voti degli italiani non è poi tanto difficile se si usa la forza della persuasione ecclesiastica amplificata dalla copertura costante e continua delle parole papali effettuata da tutte le reti nazionali (mi chiedo cosa ne pensi il presidente di San Marino). Questo 35% diventa ancor più spaventoso se gli sommiamo la pletora di baciapile che considerano le parole del papa un elemento di orientamento morale e civile.


Ma i numeri vanno letti in relazione alla dinamica elettorale corrente. Considerando che le elezioni si vincono per un pugno di voti (23,33 bel 1994, 12,3 nel 1996, 18,7 nel 2001, 0,065 nel 2006, 9,266 nel 2008) e che questo pungno tende a diventare sempre più piccolo, considerando che partiti di ispirazione cristiana si distribuiscono su tutto l'arco parlamentare, basta orientare il solo 10% dei "laici" per far vincere o perdere un'elezione.


E questo spiega il sorriso di Formigoni. In una serata che avrebbe dovuto esser triste, col pensiero di una persona morta come scenario, Formigoni rideva. Rideva perchè sa che, per l'ennesima volta l'Italia è stata messa sotto scacco, costretta a scegliere, illegittimamente, tra la vita e la morte, a radicalizzare le sue opinioni, a schierarsi "a prescindere", senza vivere realmente sulla propria pelle il dramma della malattia, della morte e dell'accanimento terapeutico, costretta a polarizzarsi sulle parole del papa, che alle orecchie dei cattolici suonano come corni di guerra nel corso di una battaglia. Formigoni rideva alla faccia della maggioranza della popolazione che non la pensa come lui, perchè sa perfettamente che basta incattivire la minoritaria fascia dei cattolici per conservare il potere, accrescerlo, radicalizzarlo su posizioni religiose: in parole semplici, spostare voti per vincere le prossime tornate elettorali.

L'impressione che ho avuto, e non credo di sbagliarmi, è che quello fosse il sorriso dello sciacallo che non ha nessun sentimento per la persona morta tra atroci sofferenze e che calcola, con il bilancino dell'usuraio, il guadagno, monetario, morale e politico, che quella morte avrà per la sua parte. L'osservazione del viscidume di quel sorriso è la misura esatta dell'uso cinico che una certa parte politica fa della religione; è la cartina di tornasole del gioco perverso che ogni giorno si fa alle spalle del popolo, della laicità della nazione e della democrazia stessa.

martedì 10 febbraio 2009

Cosa contraddistingue

Cosa contraddistingue il cattolicesimo romano. Ingenuamente si risponderebbe con i canoni e la dottrina, il messale e i dogmi, dalla trinità all'immacolata concezione, la fede in Cristo e nelle sue parole. A me sembra invece che la cifra distintiva sia la capacità di restare a galla, attaccata ferocemente ai suoi provilegi, alle sue garanzie, ai suoi beni materiali.
Proviamo brevemente a rifletterci. Fino al due secoli fa la battaglia era materialissima, ed era banalmente per il territorio e il controllo sulle monarchie europee che andavano unte tutte perchè fossero legittime. Il papato combattè contro la rivoluzione francese, i moti carbonari e le rivendicazioni borghesi.

Prima ancora era per la centralità papale, che era indiscutibile, e per la quale si sterminarono milioni di protestanti, streghe e quant'altro. Papa Gilio II usciva a cavallo bardato da militare e non ci pensava minimamente a sacralizzare la vita, visto che il punto focale restava il potere politico e non la parola di Dio.

Facendo qualche passo indietro troviamo la più bella risposta alla "strenua difesa della vita" oggi tanto sbandierata, e ce la da Arnaud Amaury sotto le mura di Béziers, all'atto di sferrare l'ultimo attacco contro i Catari. Alla domanda di un suo soldato che gli chiedeva come avrebbero dovuto salvare i cristiani dagli eretici, l'abate di Citeaux rispondeva: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi".

Alla fine dell'800 la scomunica colpiva i socialisti, visto che la loro rabbia si appuntava anche contro i possedimenti religiosi, le terre, i domini e le prebende. Il dogma divenne improvvisamente la nobiltà, il possesso e la proprietà. Solo più tardi la chiesa si sarebbe svegliata, perchè rischiava che un'estensione generalizzata dei diritti verso i più poveri, la loro alfabetizzazione, il riconoscimento della centralità del soggetto come portatore di interessi intaccasse il monopolio della carità : se un uomo è tale non c'è bisogno della Chiesa che si pone come mediatrice tra i suoi bisogni e il potere.

Nella storia passata la Chiesa si è trovata sempre un passo indietro, ad inseguire il gregge che dovrebbe guidare. E mentre il gregge cresceva e prendeva coscienza di sè le gerarchie vaticane perdevano pezzi progressivi di potere.

Negli anni settanta si sono battuti contro il divorzio e l'aborto, oggi contro il testamento biologico e l'eutanasia. La chiave di tutto è sempre la coscienza delle persone, il controllo dei gangli vitali delle persone (il battesimo, il matrimonio, l'estrema unzione), ultimo ridotto in cui la Chiesa può vantare un po' di potere, e non solo morale. Se le persone si liberano addio 8 per mille, addio donazioni, addio tutto. E allora la parola d'ordine diventa "difesa della vita". Dopo secoli di massacri di donne ed eretici, dopo le croci fatte sfilare in marcia verso la Terra Santa, dopo la benedizione degli eserciti pronti ai peggiori massacri, questa "difesa" suona francamente ridicola, opportunista e penosa.

A monte non c'è l'incapacità di capire che la responsabilità degli atti risiede nella persona. A questo, se ci si mettono a pensare, ci arrivano anche i Vescovi più oscurantisti. A monte c'è la difesa di sè. Se a questo aggiungiamo l'amplificazione che alle parole papali da normalmente la politica, si capisce come questo non sarà mai un paese normale.

Ponte Vittorio Emanuele II

Quando i padri unitari presero possesso di Roma lo fecero contro il Vaticano. Avevano capito, loro, che l'arretratezza della nostra nazione era dovuta ai giochetti secolari che da millenni si orchestravano oltre tevere. Per secoli il Vaticano aveva messo gli stati italiani gli uni contro gli altri, e questo consentiva al Papa di vivere tranquillo nei suoi palazzi. Certo, conquistare il colle oltre Tevere era una questione di potere, ma era anche frutto della necessità di far uscire il paese dal medioevo, dalla barbarie di un potere che controllava, indistintamente, le coscienze e i territori.
E così si arrivò a Porta Pia.
Quando nel 1886 Ennio de Rossi venne chiamato a progettare il Ponte Vittorio Emanuele II tutto era ancora estremente chiaro. Quando venne inauguato, nel 1911, il ponte si presentò al pubblico con una simbologia chiarissima: quattro vittorie alate davano l'accesso alle campate, solo che c'era una piccola, notevole differenza tra quelle che guardavano il Vaticano e quelle che guardavano la sponda "Italiana".
Le prime, erano poste a difesa dello stato, portavano l'elmo, la spada e lo scudo. L'una, quella di sinistra, era ferma in posizione di difesta, la seconda, invece, mostrava in alto la spada in segno di sfida. Erano la prima linea di difesa verso la laicità dello stato, quasi che il fiume fosse concepito come trincea naturale contro le bordate del Papa. Lo Stato percepiva in maniera chiara che l'ingerenza vaticana era e restava un pericolo.

Le seconde, rivolte verso la sponda sinistra, porgevano la "Vittoria" alla nazione, in una spinta entusiastica si protendevano verso il centro politico d'Italia brandendo non la spada ma la corona d'alloro, la panoplia militare, la gloria per l'unità.
Oggi, dopo giorni di barbarie mediatica, ingerenze continue, attacchi alle istituzioni, politicanti accodati al Vaticano per rubare un po' di consenso, baciapile senza dignità, giudizi dati senza conoscenza di nulla, opportunismi nauseanti, preti sterili che parlano di paternità, presentatori caini che piagnucolano come verginelle nella recita a soggetto del dolore, gerarchie ecclesiastiche che tuonano dai pulpiti nel timore di perdere il controllo sulla morte (visto che il funerale è l'ultimo sacramento che amministrano copiosamente), Presidenti del Consiglio che si infilano nella breccia per sferrare l'ultimo attacco alle istituzioni, Papi senza nessun contatto con la vita reale, chiusi a riccio nei loro palazzi tinteggiati d'oro, oggi, proprio oggi, rimpiango quei padri liberali e massoni, quegli uomni liberi e determinati, che sfondarono quella muraglia che da secoli ci sprofondava nell'oscurantismo.