Adesso diranno al mondo che siamo una popolazione eroica. Faranno un'equazione sciocca tra il ricordo pietoso dei morti, di quelli che se ne sono andati, e il dolore dei vivi. Diranno che i popoli dell'Abruzzo sono "dignitosi", "resistenti", "operosi", temprati, come le piante d'altura, dal gelo, dal freddo e dai terremoti, dalla storia. Verranno a dirci che non ci siamo piegati al dolore, alla perdita dei cari, delle case, dei beni materiali, diranno che ci rimane il senso della realtà, del fare.
Adesso ci incenseremo al vento degli altipiani, che di questi tempi sono ancora coperti di neve, faremo in modo che il vento non porti via il nostro odore alle narici dei lupi, e ci nasconderemo come al solito, questa volta sciacallando i morti che sono stati, gli uomini, le donne, i ragazzi, che se ne sono andati.
Eppure io penso che sia il momento di darsi collettivamente la colpa. La colpa della distruzione, della rovina e delle bare. Ci dicono: un terremoto non è prevedibile. Falso, falsissimo. Non è prevedibile dove e quando colpirà, ma in mezzo a quelle montagne un terremoto è una certezza matematica, prima o poi colpisce. E noi, dopo Avezzano nel 1915, abbiamo perso un secolo in chiacchiere, senza muovere un dito per fare in modo che la tragedia non si ripetesse. Siamo una nazione, e in una nazione sono responsabili tutti: i politici che non han fatto le leggi, i progettisti che non le hanno applicate, le ditte che hanno risparmiato sui materiali, i cittadini che hanno vigilato, non hanno ristrutturato, hanno comperato senza informarsi.
Siamo colpevoli tutti, e ciascuno con la propria singola, specifica, responsabilità. Niente di generico. Niente che nel tutti cancelli la responsabilità dei singoli.
Dobbiamo dirci spietatamente la verità, e cioè che la nostra festa nazionale continua ad essere domani, il Venerdì Santo, il giorno in cui tutti ci chineremo a baciare il costato di Gesù crocifisso, il giorno in cui rinnoveremo la nostra fedeltà alla Croce. Per noi popolazioni del Sud è l'atto di sottomissione alla fatalità dell'esistenza, una fatalità che non riusciamo mai a portare fino alla resurrezione, mai. Vale su tutto il pendolare autistico dei questanti in processione dietro il Cristo Morto, non Vale, invece, il coraggio che sconfigge la morte del Signore Risorto.
Fino a quando ci diremo che quell'adorazione non basta, che la Croce si porta, ma che si porta in un dove positivo, in un altrove migliore, in un futuro più luminoso? Che non siamo condannati al dolore, alla fatalità dell'esistenza? Per una volta ancora vale lo stupore di Flaiano di fronte alla catastrofe di Avezzano, il rimanere attoniti di fronte ad una popolazione che se lo aspettava, che non aveva fatto nulla affinché non accadesse e che si rassegnava ancora una volta, ancora una volta piegando la testa.
Adesso non è il momento per autocelebrarsi, ma è arrivata l'ora di attribuirsi, ciascuno per sè, la responsabilità di quanto è accaduto. Con la speranza che questa accettazione della Croce, ci porti a farla scomparire.
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