venerdì 31 ottobre 2008

Di cosa si parla al Sud

Interconnessione delle Crisi
L'esplosione della crisi alimentare, economica e finanziaria nel 2007-2008 mostra a che punto le economie del pianeta sono interconnesse. Per risolvere queste crisi bisogna risolvere il male alla radice.

La crisi Alimentare

Nel 2007-08, più della metà della popolazione del pianeta a visto degradarsi la propria condizione di vita perchè ha dovuto affrontare un fortissimo rialzo dei prezzi alimentari. Questo ha provocato proteste vibranti almeno in una quindicina di paesi nella prima metà del 2008. Il numero di persone toccate dalla fame è aumentato di qualche decina di milioni e qualche centinaio si è vista restringere l'accesso agli alimenti (e di conseguenza ad altri servizi vitali). E tutto in conseguenza delle decisioni di un pugno di imprese del settore alimentare (produttrici di bio combustibili) e del settore finanziario che hanno beneficiato dell'appoggio di Washington e della Commissione Europera. Pertanto, la parte di esportazioni dedicata alla produzione di alimenti resta debole. Una piccola parte del riso, del grano e del mais prodotto nel mondo è esportata, la maggior parte della produzione consumata sul posto. Come noto sono i prezzi di esportazione che determinano il prezzo sui mercati locali. Questi prezzi sono fissati negli Stati Uniti principalmente in tre Borse: Chicago, Minneapolis e Kansas City. Di conseguenza il prezzo del riso, del grano o del Mais a Timbouctou, a Città del Messico, a Nairobi o Islamabad è direttamente influenzato dall'evoluzione delle quotazioni di queste granaglie sui mercati borsistici Americani. Nel 2008, nell'urgenza di essere spazzati via dalle proteste popolari, ai quattro angoli del pianeta, le autorità dei paesi in via di sviluppo hanno preso delle misure per garantire ai propri cittadini l'accesso agli alimenti di base. Se siamo arrivati a questo punto è perchè per decenni i goversi hanno rinunciato progressivamente a sostenere i prduttori locali di grano, che sono in normalmente piccoli produttori, e hanno seguito le ricette neoliberali impartite da istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario nel quadro dei piani di aggiustamento strutturale o di riduzione della povertà. In nome della lotta contro la povertà, queste istituzioni hanno forzato i governi a mettere in atto politiche che hanno prodotto, se non rinforzato, la povertà stessa. In più, nel corso degli ultimi anni, molti governi hanno firmato trattati bilaterali (normalmente di libero commercio) che hanno aggravato ancora la situazione. I negoziati commerciali nel quadro del Ciclo di Doha dell'OMC hanno ugualmente determinato delle conseguenze funeste.

Che Succede?

Atto Primo. I paesi in via di sviluppo hanno rinunciato alle protezioni doganali che consentivano ai coltivatori locali di difendersi dalla concorrenza dei produttori agricoli stranieri e principalmente le grandi industrie agro alimentari dell'America e dell'Europa. Questi ultimi hanno invaso i mercati locali con dei prodotti agricoli venduti al di sotto del costo dei prdizione degli agricoltori o defgli allevatori locali, e questo ha provocato il loro fallimento (molti di loro sono emigrati in città o nel nord del pianeta). Secondo l'OMC i sussidi versati dai goveri del nord alle grandi imprese agricole sul mercato interno non costituiscono un infrazione alle regole anti-dumping. COme ha scritto Jacques Berthelot: "Mentre per l'uomo della strada esiste il Dumping quando si esporta ad un prezzo inferiore del prezzo medio di produzione, per l'OMC non c'è Dumping se si esportano merci al prezzo del mercato interno, anche se inferiore a quello medio di produzione". In preve, i paesi Europei e gli Stati Uniti o altri paesi esportatori hanno invaso i mercati altrui con prodotti che beneficiano di pesanti sovvenzioni interne.Il mais esportato in Messico dagli Stati Uniti è un caso emblematico. A causa del Trattato di Libero commercio (TLC) siglato con gli Stati UNiti e il Canada, il Messico ha abbandonato le proprie protezioni doganali verso Nord. Le esportazioni di mais dagli USA si sono moltiplicate per nove dal 1993 al 2006. Centinaia di milioni di famiglie hanno dovuto rinunciare a produrre mais perchè costava più caro di quello esportato dagli USA (prodotto in maniera industriale e sovvenzionato). Questo non ha costituito soltando un dramma economico, si tratta anche di una perdita di identità perchè il mais rappresenta il simbolo della cultura messicana, soprattutto tra le popolazioni Maya. Buona parte degli agricoltori hanno abbandonato i campi e sono partiti in cerca di lavoro nelle città industrializzate di Messico e Stati Uniti.
Atto Secondo. Il Messico, che dipende dagli Stato Uniti per l'alimentazione dei propri abitanti si è trovato a confrontarsi con un aumento drammatico dei prezzi dei cereali provocato, da una parte, dalle speculazioni delle borse di Chicago, Minneapolis e Kansas City, e, dall'altra, dalla produzione col mais di etanolo presso il vicino americano.
I produttori messicani non riescono più a soddisfare la domanda interna e i consumatori messicani si confrontano con una esplosione dei prezzi del cibo di base, la tortilla, una crepe di mais sostituisce il pane o il riso delle culture di altre latitudini. Nel 2007 enormi proteste popolari sono scoppiate in Messico. In condizioni simili le stesse cause hanno portato ai medesimi effetti. L'interconnessione dei mercati alimentari a livello mondiale è stata spinta a dimensioni mai conoscite prima. La crisi alimentare mette a nudo il motore ultimo del capitalismo: la ricerca del massimo profitto a breve termine. Per i capitalisti gli alimenti non sono altro che merce da vendere col massimo profitto. Gli alimenti, elementi essenziali della vita degli esseri umani, sono trasformati in strumenti di profitto. Bisogna metter fine a questa logica mortifera. Bisogna interrompere il controllo capitalistico sui grandi mezzi di produzione e commercializzazione e dare priorità ad una politica di sovranità alimentare.

Strade di Algeria

I controlli di polizia si susseguono uno dopo l'altro lungo autostrade nuovissime e colme di macchine. I segni di un nuovo inizio economico si associano a quelli classici del controllo di pubblica sicurezza. Il nome stesso del paese, Repubblica Democratica Popolare di Algeria ricorda, nemmeno lontanamente, da dove arriva questo paese che ha fatto lo stesso percorso della Cina, ma con quel pizzico di dissidenza in più che nell'Impero di Mezzo non esiste.
L'Algeria è figlia della decolonizzazione mai terminata e delle scelte effettuate negli anni successivi alla liberazione. Enorme scatolone di sabbia abitato per una piccola fetta da 35 milioni di persone, il paese appare come un enorme cantiere nel quale la classe politica dominante cerca di imprimere un nuovo inizio alla società. La guerra, iniziata nella prima metà degli anni '90 sembra ancora in atto, e, qualcuno, ce lo ha anche confermato. I ribelli che sulle montagne sgozzavano i civili non ci sono più, l'esercito li ha sterminati a sua volta. Ma il rischio non è cessato: è per questo che, ovunque, si vive l'oppressivo senso della polizia. Polizia sulle strade, all'ingresso degli Hotel, nelle aziende (magari sottoforma di vigilantes privati). Una strada in algeria può essere anche libera, ma risulterà sempre intasata: la polizia crea tornanti artificiali, deviazioni, piccole curve, per far rallentare i veicoli e per potervi guardare dentro. Oppure determina strozzature con un polizziotto all'ingresso e uno all'uscita e, lungo il percorso, militari nascosti con il calashnikov pronto a sparare. E tutto questo per scongiurare il rischio di attentati.
Nel primo albergo in cui eravamo un cordone di polizia chiudeva l'intera zona residenziale. Torrette all'ingresso della via delimitavano il mondo della libertà da quello del controllo e, anche lì, uomini nascosti nel fogliame delle piante con il fucile in mano pronti ad intervenire. In quello attuale all'ingresso la macchina viene aperta e controllata col naso elettronico che rileva la presenza di esplosivi. Nuguli di agenti in divisa occupano qualunque angolo di questo paese che cresce, perchè, e mi pare evidente, non vale più l'equazione classica democrazia = sviluppo economico.
Una volta ci raccontavano che le condizioni di sviluppo migliori si avevano in presenza di libertà civili ben radicate. Oggi non è così. Oggi conviene venire ad investire qui. In un paese ancora controllato da un regime che ha perso un elezione e che è rimasto in sella con la scusa del terrorismo islamico. In un paese che ha dato incentivi per acquistare le auto, che costruisce autostrade e si apre ai capitali stranieri, che importa standard occidentali e toglie il velo alle donne, acquistare un giornale equivale a leggere bollettini governativi senza profondità, al punto che la maggior parte delle persone preferisce montare la parabola sulle baracche e non ascoltare la televisione di stato.

La vecchia repubblica popolare ha deciso, qualche anno fa (nessuno mi sa dire quanti) che il socialismo islamico non era la via, che bisognava iniziare ad aprire ai capitali stranieri. Nessuno però, si è mai opposto davvero all'attuale presidente. E quando l'unica resistenta è venuta dai gruppi islamici il governo ha preso la scusa per mettere il paese sotto una cappa di polizia, senza che l'occidente, ipocrita come sempre, si sentisse in dovere di intervenire.
Qui c'è da investire, da costruire, da realizzare, peccato che ogni tanto si venga a sapere che ci sono zone dove non si può andare, posti sconsigliati, come la Cabilia, dove, la gente dice, c'è la criminalità comune, e non la guerra civile. Peccato che poi il bollettino di qualche sito indipendente rilevi ancora attentati in vilaggi isolati dell'Atlante, se non ad Algeri stessa, com'è accaduto nemmeno un anno fa.

Sull'Algeria, però, pesa anche la cappa degli investitori stranieri. Per non avere problemi con gli investimenti, i ticoon del cemento, delle perforazioni petrolifere e dei trasporti marittimi hanno bisogno di silenzio sulle reali condizioni del paese. E così, pur sfogliando centinaia di siti internet, non si riesce a capire cosa succeda davvero qui, se ci sia o meno la guerra, se ci si debba preoccupare a venire.

lunedì 27 ottobre 2008

Sono Arrivato ad Algeri

Sono arrivato ad Algeri da ormai una settimana e non sono ancora riuscito a scrivere nulla... non appena potrò, farò.

giovedì 16 ottobre 2008

In Partibus/7

Oggi si discute pretestuosamente se la classe politica attuale fosse o meno peggiore di quella della prima repubblica. Se ne discute, ovviamente oggi, per capire se il passaggio è stato o meno conveniente per la nostra vita politica. Si argomenta che, probabilmente, i politici di quegli anni fossero meno disastrosi di quello che ci sembravano, tanto più alla luce di quello che ci siamo ritrovati nel sacco.

L'esercizio sarebbe anche interessante se non fosse inutile. Denigrare la presente classe politica non cambia quella che è una realtà conclamata: ossia la china deleteria imboccata dalla prima. Non si cambia la storia rifiutando il presente. E poi, se il presente proprio non ci piace, non possiamo che lagnarci con noi stessi, visto che siamo in democrazia.

Che la prima repubblica dovesse essere archiviata, però, lo si nota da un indizio preciso.
Riguardiamo i risultati elettorali prima e dopo la valanga Tangentopoli.
Risultati elettorali del 5 Aprile 1992:

  • Democrazia Cristiana (DC) 29,66
  • Partito Democratico della Sinistra (PDS) 16,11
  • Partito Socialista Italiano (PSI) 13,62
  • Lega Nord (LN) 8,65
  • Partito della Rifondazione Comunista (PRC) 5,62
  • Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale (MSI-DN) 5,37
  • Partito Repubblicano Italiano (PRI) 4,39
  • Partito Liberale Italiano (PLI) 2,86
  • Federazione dei Verdi 2,79
  • Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI) 2,71
  • La Rete 1,86
  • Lista Pannella 1,24

Si analizzino ora i risultati del 1994:

  • Forza Italia 21,01
  • Lega Nord 8,36
  • AN 13,47
  • PDS 20,36
  • PRC 6,05
  • Federazione dei Verdi 2,70
  • PSI 2,19
  • Movimento per la Democrazia - La Rete 1,86
  • Alleanza Democratica 1,18
  • PPI 11,07
  • Patto Segni 4,68

A ben vedere... dov'è la DC: nel 94 CCD e CDU entrarono nella Casa delle Libertà con Berlusconi solo perchè associati nel cartello elettorale: il loro risultato era talmente trascurabile che le fonti non lo riportano, ma doveva essere intorno al 5%. Il PPI, si presentava da solo ma il suo risultato è quello riportato.

Due elementi evidenti:

  1. nel '94 la DC si era autoeliminata dai giochi, si era sciolta.
  2. nel '94 il peso elettorale dei partiti cattolici risultava irrisorio rispetto alla tornata precedente.

Qualcuno obietterà che il partito era stato scalzato dagli scandali milanesi. Peccato che in democrazia il peso di una formazione politica è quello risultante dalla sua forza elettorale. Non nego il peso delle inchieste giudiziarie, dico solo che, nel '94 mancò la normale base sociale che aveva accompagnato la DC e mancò anche la paura del comunismo che l'aveva tenuta in vita. A questo si aggiunse una classe dirigente che non riuscì a rinnovarsì velocemente. La compagine sociale della DC non esisteva più: in questo, l'elemento giudiziario era uno dei fattori scatenanti.
Un fattore, tra l'altro, dai meccanismi non scontati: nel '76 scoppio lo scandalo lockheed, alle elezioni la DC ottenne il 38,72%, alle elezioni successive 38,30%.

Lo stesso discorso si potrebbe fare per il PSI.

mercoledì 15 ottobre 2008

In Partibus/6

Ricostruire Mani Pulite nella mia memoria è un esercizio che regalo a me stesso per non perdermi di fronte al chiacchiericcio degli ultimi anni.

Che cosa sia stato Mani Pulite, al di là della sua natura giudiziaria, lo sa perfettamente qualunque italiano. Lo sa nel profondo di quello che avvertì e sentì in quegli anni. Lo sa, soprattutto, in relazione alla valutazione politica della prima repubblica, valutazione in sè facile, anche troppo.
Quando da Milano cominciarono a giungere notizie del terremoto che stava coinvolgendo i massimi vertici della democrazia italiana gli avvisi di garanzia si avvitarno in un circuito che coinvolse, correttamente, i media e l'opinione pubblica. Come nelle più classiche delle teorie sulla democrazia, quasi a leggere Habermas, al venir meno della classe politica si contrappose, immediatamente, la presa di coscienza dell'opinione pubblica correttamente informata dalla stampa. Questo non vuol dire che non ci furono eccessi.
Il clima che si respirava allora non è quello che si vuol far passare oggi: non c'era terrore, non si guardava ai giudici di Milano come a un branco di bracconieri sulla preda, come a toghe rosse. A leggere i giornali di allora, che ho ancora, si legge euforia, pura, semplice e limpida euforia.
Le persone erano felici di vedere in manette una classe dirigente disastrosa. Erano felici quando inscenavano caroselli di fronte ai palazzi di giustizia di mezza italia. Erano felici quando, liberandosi, denunciavano e parlavano contro coloro che avevano infangato la politica italiana.

E pazienza se non tutti fossero sotto processo. Il problema non si poneva. I giornali raccontavano di un sistema malato nelle fondamenta che viveva di illeciti continui, che di illeciti si era nutrita abbondantemente. I giornali facevano da cassa di risonanza, perchè quello era il tema, e, soprattutto, di quello volevano leggere le persone.
Ho conservato i giornali di allora e non ho scorto lo scoramento per un mondo che moriva. Vi ho letto il senso di liberazione dopo quarant'anni di democrazia bloccata, senza ricambio e senza futuro.

Oggi, quanti hanno ribaltato quel momento come un calzino, parlano di giustizialismo. Allora il problema non si poneva così. Oggi si parla di uomini innocenti. Allora le persone non la vedevano così, perchè la partita non era giudiziaria, ma politica. Il fenomeno è illustrato, come meglio non si potrebbe, dal famoso articolo delle lucciole di Pasolini. Non si trattava di ragionare se ci fossero le prove delle malefatte dei politici che venivano processati. Si trattava di delineare le responsabilità che aveva quella classe politica nel declino evidente del paese. La spallata giudiziaria veniva dalle dichiarazioni di decine di imprenditori che non ce la facevano più. E se non ce la facevano loro non ce la facevano nemmeno gli altri. La spallata era accompagnata dal sorgere e risorgere di formazioni politiche che esprimevano decisamente il dissenso: a rileggere i giornali di allora Alleanza Nazionale e la Lega prima di tutto. Insomma, la società civile si imbarcava in una battaglia contro quanti avevano saccheggiato l'Italia.

Chi parla di magistratura militante dovrebbe ricordarsi di cosa l'opinione pubblica accusava quella classe politica:
  1. un debito pubblico da record, accompagnato da una moneta che in quegli anni fu messa sotto tiro da Soros e che si salvò per miracolo;
  2. una qualità scadente di tutti i servizi pubblici, essenziali o meno che fossero;
  3. uno spreco continuo ed evidente di denaro pubblico;
  4. la diffusione di una mentalità lassista, che si traduceva, nei fatti, in abusivismo edilizio ed evasione fiscale;
  5. una collusione, nemmeno tanto velata, con la criminalità organizzata;
  6. il sospetto, che poi tanto sospetto non era, di una partecipazione, diretta e indiretta, alla strategia del terrore degli anni settanta.

In tutto questo, che si trattasse di una classe corrotta lo sapevano tutti, la magistratura lo certificò in maniera efficace. E con lei lo certificò lo stesso ceto politico: nessuno dimentica le confessioni rese da Forlani. Nessuno dimentica il discorso con cui Craxi cercava di salvarsi dall'autorizzazione a procedere; disse, stupidamente, che mal comune è mezzo gaudio.

Insomma, lo sapeva l'opinione pubblica, lo certificava la magistratura, lo confessavano i diretti interessati. Chi oggi afferma il contrario è, normalmente, chi ha maggiormente beneficiato di quanto accadde, e mente.

E poi era caduta la scusa che teneva questi personaggi al potere. Non c'erano più comunisti da combattere (allora si sapeva perfettamente, anche se poi ce ne siamo dimenticati). Caduta la scusa si sono trovati scoperti. A veder gente che li piange ci viene da ridere.

In Partibus/5

Il nuovo assetto dell'Europa fondata sui desideri ci coinvolgeva da vicino. Perchè rivoluzioni di velluto, fatte nel più pieno pacifismo (con l'unica eccezione della Romania), fatte da ragazzini giovanissimi non potevano che coinvolgerci, e, anche perchè, sapevamo che l'Europa si stava allargando e, per noi, erano solo possibilità in più.

Perchè, a ben vedere, l'Europa era l'altro concetto che ci differenziava profondamente dalla generazione precedente. L'Italia non è, ovviamente, un paese nazionalista, caso, mai è campanilista. Per gli italiani di allora, e soprattutto per noi ragazzini, l'Europa era una bella speranza, concreta, per di più. Il Vecchio Continente, più dell'America, era il nostro orizzonte culturale. Avremmo potuto (ad avere la possibilità) fare Capo Passero Capo Nord mettendo semplicemente un piede dopo l'altro. Si cominciava a ragionare di viaggiare senza passaporto, si compiva, avrei saputo più tardi, uno dei quattro pilastri dell'Unione Europera: la libera circolazione delle Persone.
Il vecchio continente ci pareva (e ci pare ancora) la terza via che era sempre stata davanti agli occhi di tutti e di cui, tutti, cercavano l'imbocco. Agli occhi di noi italiani, abituati al lordume di una classe politica incapace, immobile e corrotta, esso era il luogo di nascita della socialdemocrazia, ossia del giusto compromesso tra diritti ed economia di mercato. E, anche se la questione non era formulata in questi termini, a noi sembrava quello che avremmo voluto diventare.

Diventare, cambiare, migliorare, progredire erano i verbi di quegli anni. Dopo la palude degli anni 80 si tornava a respirare, almeno così mi sembrava. Niente più lustrini, paillettes, spalline robotiche, donne di ferro e yuppies. Si apriva la stagione di un rigore gioioso, e anche la parola progresso, che per tanti anni era stata associata ad un mondo socialista, a noi sembrava dotata di un valore umano fondante e inalienabile, che la rendeva diversa, migliore di quanto non fosse, e, soprattutto, slegata da quel senso di sopraffazione, sfruttamento e degrato che aveva avuto in passato.

E fu per questo che, quando si aprì la stagione di Mani Pulite ci sembrò che fosse arrivato anche il nostro momento.

In Partibus/4

Però, e questo nel mio caso non era trascurabile, ero cresciuto con le categorie dei detentori del potere della prima repubblica, ma utilizzandole per stare all'opposizione. Per un qualche motivo, non ultimi i contrasti con mio padre, mi stavo allonatanando sempre più dal suo pensiero. Aver partecipato alle riunioni della DC non mi imponeva di restarci e non ci restai.

Anzi: proprio quello che stava succedendo nel mondo mi rendeva consapevole di un fatto semplice che cerco di spiegare. Se una molla è tesa tra due capi mobili, venendo a mancare uno dei due capi crolla anche l'altro. Semplice. I due capi del mondo di allora erano la Nato e il Patto di Varsavia. La domanda semplice che mi facevo era: se è crollato il patto, a che serve la Nato? Mi sentivo, in quei giorni, nei quali si moltiplicavano le notizie che provenivano da est, come uno che voleva tutto e subito: se il principio del terrore, che aveva tenuto insieme il vecchio mondo, veniva meno, allora doveva scomparire tutto il vecchio mondo. Non era possibile, ai miei occhi ingenui, che restassero in piedi alcuni pezzi e alcuni no. O tutto o niente.

Per certi versi fu così, ma non ovunque e non per tutti. Intanto ad est le cose si complicavano, da oltre cortina arrivavano immagini per noi incredibili: quegli uomini e quelle donne uscivano da un medio evo vestiti da poveracci degli anni 80, vedevamo, per la prima volta, quelle macchine sgangherate, cubiche, senza stile.
Ho ripensato spesso a quelle immagine, alcune delle qual non si dimenticano facilmente, come la morte di Ceausescu. E ci ho ripensato in relazione ad una riflessione contenuta anche ne "L'eleganza del Riccio". Nel libro si fa presente che la caduta del comunismo era inscritta nella sua base ideologica: ne "L'ideologia Tedesca" Marx spiegava perfettamente che non si sarebbe potuto costruire il comunismo senza abbattere il desiderio. In una società senza desideri sarebbero rimasti i bisogni, saldamente ancorati alla base economica dell'esistenza.
Ed è questo quanto si vedeva oltre cortina: un mondo di persone che erano tornate a desiderare. Fosse la libertà, fossero beni di consumo, fosse divertimento, l'est europa tornava a vivere spinto dai suoi desideri. Quella rivoluzione, meno celebrata di tante altre, nasceva non più dal lavoro di un pensatore, dal sogno di un visionario o dall'incubo di un dittatore. Quella rivoluzione non aveva le zampe appoggiate su un gigante dai piedi di argilla: piuttosto si fondava sui bisogni individuali di milioni di persone alle quali erano stati rubati i sogni. E si può discutere quanto si vuole che non si trattasse di bisogni elevati, che si trattasse solo del desiderio di arricchirsi. Si capiva allora quello che si cerca di nascondersi da sempre: l'essere umano ha alta capacità di pensare, ma poi, nel concreto, è nato per vivere.

In Partibus/3

Con questa mentalità arrivò, e ci si aspettava che arrivasse, il 1989.

E fu una rivelazione. Altro che fine della storia. Il mondo friggeva. Arrivavano notizie, da ogni dove, ed erano un'epifania planetaria.
Mi ricordo ancora quella sera di novembre che rientrai in casa e vidi le immagini che provenivano da Berlino. Mi ricordo che sentii un brivido. Il brivido che si prova di fronte ad una nuova nascita, ad un amico che non si vede da tempo.
Prima di allora, pochi mesi prima, c'era stata Tienanmen, ma non era finita bene. Erano anni che si sentiva parlare di quello che accadeva ad est: ci eravamo appassionati a Solidarnosh, sapevamo che un gruppo di operari (sic!) combattevano il comunismo. Non sapevamo, e forse ci sarebbe stato indifferente, che Giovanni Paolo II avesse lavorato per questo risultato: eravamo troppo piccoli per saperlo. Sapevamo solo che qualcosa stava succedendo, che un mondo, inchiodato alla sua idiozia per anni ed anni si stava per svegliare. E sapevamo anche che, di fronte al mondo, ci sarebbero stati i nostri cugini più grandi a sventolare la loro bandiera.

E così fu! Quei giorni, come tutti gli anni, a casa mia erano di lavoro febbrile. Ero stato tutta la giornata a lavorare e a perder tempo in mezzo agli operai. La sera, quando rientrammo a casa, la luce in cucina era già accesa e si preparava una di quelle cene d'autunno dove si mangia per fame e per stanchezza, ancora coperti di sudore. Ed è in quest'atmosfera che localizzo la caduta del Muro. La tv trasmetteva le immagini dei ragazzi di Berlino di fronte al muro e alla porta di Brandeburgo. Ragazzi e ragazze che si baciavano, uomini e donne che si rivedevano dopo anni di separazione. E un mondo che, finalmente, crollava e se ne andava a 'fanculo.
E io, che ero piccolo, ero orgoglioso, già allora, perchè sapevo che, involontariamente, facevo parte di quella generazione che aveva cambiato il mondo. Voi mi direte: "ma se tu eri a casa a mangiare". E io invece sentivo che l'empatia che mi legava ai berlinesi in quella sera di autunno era l'indizio che io, come loro, facevo parte della prima generazione di uomini e donne del novecento ai quali nessuno avrebbe potuto dire comunisti o fascisti. Eravamo i primi veramente liberi perchè sotto i nostri occhi cambiava la storia... e, per una volta, non erano gli eserciti a farla, ma quei ragazzi del nord europa che, per troppo tempo, avevano ingoiato il lordume di regime.

In Partibus/2

I padri veri della politica italiana sono due: Macchiavelli e l'impero bizantino. L'uno, padre del cinismo in politica, guida tutti i trasformismi che conosciamo. L'altro, erede dell'impero dei cesari, ha costruito una simbologia del potere che, conservando i formalismi, ammanta i soprusi (compreso l'accecamento del nemico) con parole che fanno la spola continuamente tra il sacro e il profano.
In Italia conoscere il gergo politico vuol dire imparare "cosa si cela" sotto le ragioni sempre "nobilissime", "costituzionali", "istituzionali", di "priorità nazionale" ecc. Si impara, per esempio, che un "rapporto cordiale" vuol dire "rottura", che un "cauto ottimismo" vuol dire "tempesta". Partecipare alle riunioni di un circolo DC negli anni 80 era, senza dubbio, come frequentare un master in comunicazione politica.

Con questo master in corpo arrivò il 1989.

Voglio fare, visto che questo blog non lo leggerà nessuno, un'altra premessa. La mia generazione (sono nato nel 1977) è cresciuta senza chiesa. Non che questo sia sempre positivo, ma, di certo, a noi non è dato di pensare ad uno schieramento ideologico investendolo di sacralità. Per noi, che esista o meno il comunismo, o che ci sia stato il fascismo, che il Papa, o chi per lui, abbia potere sulla morale è un dato trascurabile. Per dirla in altri tempi, non ce ne frega nulla.
Noi non ci siamo mai azzuffati per queste cose, non abbiamo mai impugnato un manganello o una P38, non abbiamo mai ascoltato il sermone di un prete che invitava a votare questo piuttosto che quello. Per noi, che piaccia o no, non esistono posizioni inconfutabili, o per lo meno, ci sembra di poterne fare a meno.
Qualcuno ha deciso di vivere la propria vita senza senso del politico, proiettandosi su altro, legittimamente e senza problemi. Qualcun altro si è buttato nell'antipolitica, maturando un senso di sano disgusto. Altri, e io tra essi, hanno la pretesa di valutare il politico al di là di categorie nate negli anni 50. Certo, si fa uno sforzo di razionalizzazione cercando almeno di conservare il divario destra/sinistra, ma, anche questo, è trascurabile.

In Partibus/1

Nel 1989 ero un bimbo di 13 anni. Mio padre mi aveva abituato al "discorso politico" già da allora. Mi portava spesso, senza problemi, forse solamente perchè non sapeva che farmi fare, alle riunioni della DC del paese.
Io me ne stavo lì, seduto tranquillo, ad ascoltare i loro discorsi: discorsi da prima repubblica, ovviamente, ma discorsi bifronte.
La DC in paese era all'opposizione: l'amministrazione comunale era retta da un monocolore PCI da quasi 50 anni (dopo una breve esperienza azionista alla fine della guerra, mi dicono) e la Balena Bianca cercava in tutti i modi di scalzarla dalla poltrona.
Ma il PCI alla poltrona (allora come oggi) c'era incollata. Negli anni 50 aveva guidato i primi movimenti per la terra, ma poi si era cristallizzata al potere senza alternative e senza fantasia, e il paese languiva come languono, da sempre, tutte le realtà che si ostinano a non cambiare mai. Col tempo la situazione era andata peggiorando, con la conseguenza che l'emigrazione, il malgoverno, la mancanza di attività economiche, la compravendita di voti e di favori, avevano inaridito il territorio, che, di per sè, sarebbe anche un gioiellino.
E non che fosse inevitabile. Altre amministrazioni dei dintorni, migliorandosi, facendo sforzi (anche poco lungimiranti) erano riusciti ad attrarre investimenti, cosa che il nostro Comune non faceva e, soprattutto, non voleva fare. Pareva, ed era tipico del PCI, che ci fosse una conventio ad escludendum al contrario: "vada per le cooperative" si diceva "ma imprese proprio no".
Insomma: la DC di mio padre si trovava a combattere contro un potere fortemente sclerotizzato, monopolizzato da anni e incapace di rinnovarsi. E però, era pur sempre la DC. E quindi esprimeva uno stile di ragionamento bifronte, come ho detto prima, ossia: si considerava, da partito al governo (nazionale), coinvolto nella verbosità fumosa dei vari moroteismi e doroteismi di sorta, e, da partito all'opposizione (locale), costretto a combattere con l'assalto frontale e l'arrembaggio semantico il Partito Unico.
Questa ambiguità era, alle mie orecchie, feconda. Ero piccolo, un ragazzino imberbe, appena capivo ragionamenti lineari, figurarsi le iperboli democristiane. Eppure fu utile, utilissimo.
La politica italiana non è scritta in italiano. La politica italiana è figlia di due madri ignobili, checchè se ne dica...