sabato 21 novembre 2009
Il Male
La mattina che Brenda morì ebbi uno di quei pensieri premonitori che spesso mi raggiungono alla sprovvista. L'essere umano, per sua natura, tende a sistematizzare il male. Tradizionalmente siamo abituati a pensare che, se un disegno esiste, esso si estende indifferentemente anche alla complessa relazione che lega quanti fanno del male. Tendiamo a pensare, in altri termini, che esista una regia del male, che ogni soggetto lo compia in maniera intenzionale, che ciascun gesto sia legato agli altri da finalità condivise, collettive e coordinate.
La storia di questo paese ci ha spesso portato a pensare a questo come di un ineluttabilità necessaria. I Servizi, la P2, la Banda della Magliana, la Mafia, il Terrorismo Nero, sarebbero state legate da un disegno comune, da una comune finalità eversiva coordinate da menti sottili e, di solito, collocate al di là di ogni sospetto. E' comodo. Fin troppo comodo pensarla così. Sarebbe più corretto pensare a ciascun soggetto come portatore di soggetti particolari e personali, inserito, per caso o per ventura, in un disegno più complessivo per frazioni di tempo determinate e discrete.
Quello che voglio dire è che ciascun protagonista del male quotidianamente portato a questa nazione non è indiolubilmente legato agli altri da un sodalizio criminale. Anzi! Ciascun soggetto fa la sua strada e, lungo il percorso, si trova ad avallare, favorire e perorare le cause altrui nella misura in cui queste ultime collimano con le proprie. Non è un caso che non c'è nessun testimone, nessuna memoria (tranne forse il programma politico della P2) che sia in grado di descrivere quello che successe in quegli anni. Nessuno di quanti hanno partecipato a quella stagione infame è capace di ricostruirne sostanzialmente il disegno complessivo, rendendone chiari i fini, le strategie e le modalità operative. E' questo è proprio il risultato della tangenzialità dell'intervento di ciascuno alla generale operatività del male in sè.
Anche nell'affaire Marrazzo la storia si ripete. Storia di piccoli farabutti, che per un caso si sono trovati a ricattare un personaggio noto. Storia di farabutti più grandi che hanno spostato le finalità iniziali verso altri obiettivi, le hanno ingigantite e le hanno riposizionate. Storia di soggetti che, con poco scrupolo, si sono serviti di altri soggetti che, normalmente, avrebbero fatto la propria strada.
Quello che è triste, pensando a Brenda, ma anche ai morti di Bologna, Brescia, dell'Italicus e di tanti altri, è che, in questo convergere spesso casuale di interessi di per sè indipendenti, ci sia sempre qualcuno, innocente (o più o meno innocente) che alla fine viene schiacciato affinchè il disegno, pur se solamente abbozzato, si compia.
lunedì 9 novembre 2009
9 Novembre 1989
Quella sera io e papà eravamo appena rientrati da una lunga giornata di lavoro. Io avevo 12 anni, e, potete non crederci, davo una mano a mio padre facendo piccole cose al frantoio. Se non facevo nulla mi divertivo ad intrattenere gli operari, chiacchieravo, gli portavo il caffè, passavo il tempo sdraiato sui sacchi caldi delle olive.
Quella sera la televisione trasmise le immagini che mi avrebbero cambiato la vita. E non perché ne trassi un qualche insegnamento schierato, una percezione di quale delle due parti del muro avessi dovuto abbracciare per partito. Ma perchè, in maniera più istintiva, capii velocemente che avrei voluto, anche per il nostro mondo, una rivoluzione portata sui volti distesi e sereni, felici e trepidandi, tripudianti ed entusiasti, di quei ragazzi di Berlino che per la prima volta si incontravano tra loro.
Una rivoluzione di fiori. Bellissima. Senza sangue e senza morti. Ho rivisto e rivivo quelle immagini oggi e sono le stesse che sono stampate a fuoco nella mia memoria. E la mia memoria non consente la sopportazione di altri muri e altri confini, la mia anima continua a cercare quella rivoluzione, di gente fresca e bella che si ama e che si bacia e che si riprende il proprio futuro. Ad un ragazzo di 12 anni quella giornata non poteva insegnare di più. Eppure sono convinto che quel giorno mi riconsegnò la verginità, perché impaludati nella politica italiana noi non avevamo nemmeno sentore della più lontana possibilità di un evento simile. Invischiati in un mondo che non conosce scossoni e che, gattopardescamente, è sempre uguale a se stesso, quei ragazzi ci insegnarono che era ed è ancora possibile liberarsi dei muri più beceri, delle divisioni più odiose.
Oggi del muro, scomparsi il comunismo e con il liberalismo in crisi, non ci rimane che questo insegnamento supremo.
Quella sera la televisione trasmise le immagini che mi avrebbero cambiato la vita. E non perché ne trassi un qualche insegnamento schierato, una percezione di quale delle due parti del muro avessi dovuto abbracciare per partito. Ma perchè, in maniera più istintiva, capii velocemente che avrei voluto, anche per il nostro mondo, una rivoluzione portata sui volti distesi e sereni, felici e trepidandi, tripudianti ed entusiasti, di quei ragazzi di Berlino che per la prima volta si incontravano tra loro.
Una rivoluzione di fiori. Bellissima. Senza sangue e senza morti. Ho rivisto e rivivo quelle immagini oggi e sono le stesse che sono stampate a fuoco nella mia memoria. E la mia memoria non consente la sopportazione di altri muri e altri confini, la mia anima continua a cercare quella rivoluzione, di gente fresca e bella che si ama e che si bacia e che si riprende il proprio futuro. Ad un ragazzo di 12 anni quella giornata non poteva insegnare di più. Eppure sono convinto che quel giorno mi riconsegnò la verginità, perché impaludati nella politica italiana noi non avevamo nemmeno sentore della più lontana possibilità di un evento simile. Invischiati in un mondo che non conosce scossoni e che, gattopardescamente, è sempre uguale a se stesso, quei ragazzi ci insegnarono che era ed è ancora possibile liberarsi dei muri più beceri, delle divisioni più odiose.
Oggi del muro, scomparsi il comunismo e con il liberalismo in crisi, non ci rimane che questo insegnamento supremo.
martedì 3 novembre 2009
Autumnus
Vorrei vivere in una terra in cui l'autunno ha una sua personalità specifica. Un posto in cui le foglie sugli alberi seguissero il loro ciclo naturale e cromatico, diventassero prima gialle e poi rosse e infine cadessero.
Un posto in cui alla pioggia si assommasse il freddo e il freddo togliesse dall'aria l'umido e con l'umido il marciume preventivo, consostanziale e reale, connesso alla pianta e non alla terra.
Nella terra in cui vivo le foglie marciscono prima di cadere, raggrinziscono attaccate ai rami, si fanno grigie, poi si raggomitolano su se stesse e non cadono finché il vento non le porta via. I rami non si spogliano mai completamente, qualche foglia tenace rimane ancorata al suo malleolo fino alla primavera quando i primi germogli verdi iniziano ad infestare le superfici liscie dei platani.
I rami non diventano mai veramente neri per il freddo e per l'acqua, i colori non seguono mai la propria legge secolare.
Nella terra in cui sono nato, andando a scuola, si vedeva la montagna in lontananza coperta di faggi ad un altezza data. Sotto, i coltivi verdi delle colline ripide. Sopra, il limite della neve, la pietraia impietosa dell'appennino. E in mezzo loro, i faggi secolari, con le loro radici che tengono la poca terra, e la roccia e l'acqua. Quando arrivava l'autunno coi faggi ingialliva la montagna, che si copriva di un manto dolce di un giallo intenso che si collegava, a valle, con il rosso delle foglie della vigna. Più tardi il giallo arrossiva e poi bruniva fino a lasciare spogli i rami. In poche settimane la quinta scenica della nostra vita passava dal verde, al giallo, al rosso al nero, e poi al bianco, con l'arrivo delle prime nevi.
E tu sapevi che c'era un ordine eterno ed immutabile e il tuo organismo, come quello degli animali, si preparava al lungo inverno, al freddo, alla pioggia, alla neve, quando arrivava, e attendeva una nuova primavera.
Qui no. Qui tutto è un marciume continuo, dove nessun ruolo ritrova se stesso e nessun passaggio è scandibile o scandito una volta per tutte. In questa valle solcata dal fiume, da secoli, gli uomini come le foglie non ingialliscono mai, ma rimangono ancorate al proprio ramo in attesa di una nuova primavera.
Un posto in cui alla pioggia si assommasse il freddo e il freddo togliesse dall'aria l'umido e con l'umido il marciume preventivo, consostanziale e reale, connesso alla pianta e non alla terra.
Nella terra in cui vivo le foglie marciscono prima di cadere, raggrinziscono attaccate ai rami, si fanno grigie, poi si raggomitolano su se stesse e non cadono finché il vento non le porta via. I rami non si spogliano mai completamente, qualche foglia tenace rimane ancorata al suo malleolo fino alla primavera quando i primi germogli verdi iniziano ad infestare le superfici liscie dei platani.
I rami non diventano mai veramente neri per il freddo e per l'acqua, i colori non seguono mai la propria legge secolare.
Nella terra in cui sono nato, andando a scuola, si vedeva la montagna in lontananza coperta di faggi ad un altezza data. Sotto, i coltivi verdi delle colline ripide. Sopra, il limite della neve, la pietraia impietosa dell'appennino. E in mezzo loro, i faggi secolari, con le loro radici che tengono la poca terra, e la roccia e l'acqua. Quando arrivava l'autunno coi faggi ingialliva la montagna, che si copriva di un manto dolce di un giallo intenso che si collegava, a valle, con il rosso delle foglie della vigna. Più tardi il giallo arrossiva e poi bruniva fino a lasciare spogli i rami. In poche settimane la quinta scenica della nostra vita passava dal verde, al giallo, al rosso al nero, e poi al bianco, con l'arrivo delle prime nevi.
E tu sapevi che c'era un ordine eterno ed immutabile e il tuo organismo, come quello degli animali, si preparava al lungo inverno, al freddo, alla pioggia, alla neve, quando arrivava, e attendeva una nuova primavera.
Qui no. Qui tutto è un marciume continuo, dove nessun ruolo ritrova se stesso e nessun passaggio è scandibile o scandito una volta per tutte. In questa valle solcata dal fiume, da secoli, gli uomini come le foglie non ingialliscono mai, ma rimangono ancorate al proprio ramo in attesa di una nuova primavera.
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